politica estera
la Cina "colonizza" Asia e Pacifico e l'occidente sta a guardare
di Alberto Rosselli

La diaspora cinese è un fenomeno molto antico (già in epoca romana e medioevale masse mongolidi si spostarono in Indocina e Malaysia) che con il passare dei secoli trovò sbocchi anche in paesi molto lontani, come ad esempio gli Stati Uniti. Oggi, però, questo processo sembra avere subito una forte accelerazione e diversificazione andando ad interessare anche il Myanmar, le Filippine, l'Indonesia e persino gli atolli del Pacifico oceanici dove, in questi ultimi dieci anni, l'afflusso di centinaia di migliaia di cinesi ha dato vita a grosse e potenti comunità in grado di modificare l'assetto socio-economico locale.

Nelle isole Vanuatu, Tonga, l'ultima ondata migratoria - favorita come vedremo dal governo di Pechino - ha infatti conquistato e monopolizzato gran parte delle attività commerciali e imprenditoriali, accedendo non di rado alla finanza e al sistema creditizio. Una scalata che, come ovvio, ha conferito alle comunità cinesi, diventate lobbies, un notevole peso sulla politica dei vari Paesi ospitanti. Secondo gli analisti statunitensi, questa specie di silente invasione sarebbe il frutto di una precisa strategia di matrice imperialista messa in atto da Pechino per sottrarre parte dell'Asia e dell'area del Pacifico all'influenza occidentale, sia americana che australiana e neozelandese, utilizzando anche le stesse risorse occidentali.

Le economie degli arcipelaghi del Pacifico meridionale dipendono in gran parte dai processi di deregolamentazione tariffaria in atto, mentre il benessere australiano e neozelandese dipende dalla possibilità di importare, anche mano d'opera, a basso costo ed esportare liberamente nelle aree limitrofe.

In questo contesto, le comunità cinesi si propongono come elemento adatto a coprire questo ruolo, anche se in realtà tendono ad approfittare delle molteplici opportunità di commercio e di accumulo di capitali offerte dagli accordi economici e finanziari che legano l'universo insulare del Pacifico, gli Stati Uniti, l'Australia e la Nuova Zelanda.

Ma osserviamo le direttrici di questa per certi versi rivoluzionaria emigrazione. Oltre al Pacifico, come si è detto, una massa enorme di cinesi sta riversandosi in direzione dello Stretto di Malacca, in Indonesia e nel Sud Est asiatico, creando comunità 'chiuse', veri e propri 'stati negli stati' in grado di modificare con il loro lavoro e la ricchezza prodotta l'assetto socio-economico di intere regioni.

Qualche esempio. A Singapore, primo porto container del mondo dopo Hong Kong, l'élite politica, composta ormai in gran parte da elementi cinesi, mira a favorire Pechino impegnata nell'esportare merci, prodotti e servizi (basti pensare che la lingua 'mandarino' è diventata l'idioma commerciale più utilizzato dopo l'inglese). Un'invasione molto simile la sta patendo la Malaysia dove la comunità cinese, un tempo dedita alla sola agricoltura, sta penetrando di prepotenza nel terziario e nella finanza.

Discorso simile vale per l'Indonesia, dove le istituzioni finanziarie pubbliche locali e molte di quelle private sono ormai controllate dai cinesi che rappresentano il 10% dell'intera popolazione indonesiana. In questi Paesi, la presenza di lobbies 'gialle' viene chiaramente avvertita come un reale pericolo: con il passare del tempo le comunità cinesi crescono (grazie anche alla forte natalità) e vanno all'arrembaggio dei centri del potere politico e finanziario, sottraendoli agli abitanti del posto.

Come spiegano gli analisti statunitensi, il fenomeno trae le sue origini da diversi fattori: dal boom demografico in atto in Cina, dall'elevata competizione presente nelle megalopoli costiere cinesi e soprattutto dalla crescente forza delle banche di Pechino ormai in grado di effettuare crediti a bassi tassi di interesse alle comunità cinesi all'estero. Sempre secondo gli studiosi, da anni Pechino avrebbe varato un piano per disfarsi del surplus demografico, utilizzandolo come mezzo idoneo per 'invadere altri Paesi asiatici': operazione attuata di concerto con le principali banche che, come si è detto, sostengono gli emigranti chiedendo ad essi rimesse in dollari, in modo da estinguere rapidamente il prestito e incamerare valuta pregiata.

Ma la strategia che sta alla base del nuovo 'colonialismo' made in China non contempla soltanto manovre finanziarie ma una vera e propria penetrazione di tipo culturale e politica attraverso l'esportazione della lingua, delle usanze e dell'attuale ideologia del dragone capitalcomunista.