arte e mostre Discreta, silenziosa e netta è l'immagine che dagli oli e dagli acrilici di Nino Ricci ci appare, come condensata in una luce aurorale o crepuscolare; una solidificazione in un'atmosfera lieve e rarefatta, o un'incerta epifania di forme e volumi che dalla superficie della tela si protendono verso di noi conquistando nello spazio una dimensione di timida tridimensionalità. A differenza delle nature morte del periodo metafisico di Morandi, in cui le forme rispondono a regole compositive di tipo geometrico e una luce cruda ne segna nettamente i contorni, qui, come annota Fabrizio D'Amico presentando il prezioso volumetto (Edizioni della Cometa) che accompagna la bella mostra Nino Ricci. Opere 1996 - 2006 allestita alla Galleria Andrè di Roma (Via Giulia, 175), "quando di frequente l'orizzonte si eclissa, e viene a mancare con esso l'ordinata scansione nello spazio degli oggetti ... franano allora le cose, scivolando dal loro piano d'appoggio, sorrette come soltanto da un fiato, adesso, nel campo visivo. E quando, assieme, il chiaroscuro che, pur lieve, si intrometteva fra luce e luce nelle figure di Ricci, delineando oggetti e volumetrie, si ritira anch'esso, come risucchiato all'interno del colore, avverti che la stagione del comporre per nitide sintassi visive ha ceduto il passo ad una diversa avventura". Una nuova "visione" dell'artista, che attraverso l'intermediazione del quadro, ci viene offerta, con un linguaggio che parla con leggeri strati di colore, mai aggressivi o dirompenti, che crea un seducente "gioco" di ritmi e di fratture, non geometrico o meccanico, ma come librato sulle ali dell'immaginazione; sono le "forme", dai contorni come sbrecciati, e gli spazi, nel loro dialettico colloquiare, a creare addensamenti, solide esistenze, prive di ogni identità o riconoscibilità naturalistica (se non un lontano rinvio a scaglie di marmo o di ghiaccio), ma come frutti di percezione, di immaginazione o di sogno che si raggrumano in strati di colore, e trovano flusso ed un palpito vitale (una vita propria) in ritmi e confronti dialettici. Nato a Macerata nel 1930, Ricci dopo gli anni della sua formazione (tra il 1950 e il 1955) all'Accademia di Belle Arti di Roma, dove ha come insegnanti, tra gli altri, Sante Monachesi, Toti Scialoja e Mario Rivosecchi, e al Centro Sperimentale di Cinematografia, è vissuto sempre piuttosto appartato nella sua città, ma, dalla quiete della provincia che è stata comunque il suo primo vero "laboratorio" in un ambiente stimolante per la presenza di tanti artisti affermati a livello nazionale, ha sempre partecipato intellettualmente al dibattito sulla ricerca artistica italiane ed internazionale della seconda metà del Novecento, come ha ben raccontato Giuseppe Appella nella sua monografia a lui dedicata ed è anche documentato dall'ampio e dettagliato regesto bio-bibliografico in catalogo. Queste forme sembrano condividere, nella loro "esistenza" di colori, in uno spazio assorto e senza tempo, in un silenzio metafisico, un destino comune e si stringono tra di loro in una specie di "solidarietà" e di "complicità"; come dice D'Amico, "sganciate ora più che mai dal mondo e dalle sue apparenze, le figure narrano soltanto, ormai, storie di vita non vissute, di forme appena sognate: trepidi schermi inframessi alla luce".
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