taccuino di viaggio Il portellone dell'aereo si apre e un alito di vento carico di odori insoliti ci colpisce. Medan, gigantesco centro urbano in continua espansione ci accoglie tra le sue braccia. La citta', capoluogo della parte nord dell'isola di Sumatra e' la terza citta' dell'Indonesia in ordine di grandezza. Girovaghiamo un po' per le strade lungo i quartieri del centro storico, dove palazzi in stile olandese ci evocano immagini coloniali di altri tempi e ci dirigiamo verso il famoso mercatino alimentare di Jalan Semarang dove una miriade di bancarelle gastronomiche ci propongono cibi di tutti i tipi. Dopo aver saziato il palato spendendo poche migliaia di rupie ci dirigiamo verso il nostro albergo, punto di partenza per la prossima tappa. L'alba ci osserva mentre svolgiamo gli ultimi preparativi del materiale. Un fuoristrada con una guida locale ci attende: si tratta di un giovane ragazzo, Hidham, che parla un inglese scolastico e che riesce, con il suo accattivante sorriso ed una divertente gestualità, a conquistare la nostra fiducia. Ci muoviamo in direzione di Prapat, centro situato sulle rive del lago Toba. Durante il viaggio di circa 180 km, attraversiamo grandi piantagioni di alberi della gomma e palme. Hidham ci parla di un suo lontano parente che e' dedito alla raccolta della gomma e che ha un suo piccolo laboratorio artigianale in un villaggio a 30 km nell'interno. Un attimo di indecisione e via, da Artono, questo e' il nome dello zio di Hidham. La deviazione ci porta in prossimità di Sibaulangit dove, in un piccolo agglomerato di capanne, vive Artono. Lo troviamo intento ad intagliare con una maestria sconcertante un albero poco distante dalla sua abitazione. La simpatia deve essere un dono di famiglia: ci accoglie con tanta cordialità da metterci quasi in imbarazzo. Dopo le dovute presentazioni ci vengono offerti vassoi di legno pieni di frutta di ogni genere. Hidham fa da interprete al loquace Artono che ci narra orgoglioso dei suoi avi e di come il lavoro della raccolta della gomma sia una tradizione che viene tramandata di generazione in generazione nella sua famiglia. Poi ci conduce verso alcune statue di legno scolpito che rappresentano i suoi antenati; qui il culto dei morti e' molto sentito e di fondamentale importanza. Lasciamo con una sorta di dispiacere Artono e ci dirigiamo verso Prapat, cittadina sulla sponda del lago Toba. In prossimità del lago effettuiamo una piccola deviazione in direzione di Berastagi, localita' collinare a 1300 metri di altezza negli altopiani Karo dominata dai vulcani Sibayak e Sinabung. Una breve visita e poi via , in direzione delle cascate di Sipisopiso. Le cascate si gettano nel lago Toba dopo un volo di circa 100 metri di altezza e lo spettacolo che ci si presenta innanzi e' fantastico; dal nostro punto di osservazione abbracciamo con uno sguardo la maestosità del lago con una sorta di riverenziale rispetto ed ancor piu' rispettosi osserviamo la magnificenza del volo che effettuano le acque delle cascate nel loro percorso verso il basso. Il lago Toba e' un enorme cratere di origine vulcanica situato nella parte settentrionale dell'isola e che si e' venuto a creare circa 100.000 anni or sono in seguito ad una tremenda eruzione. Nel suo centro, troviamo incuneata l'isola di Samosir, creata da successivi sollevamenti della crosta terrestre successivi all'eruzione. Dal Prapat, sulla costa orientale, prendiamo un battello che ci porta, dopo circa 40' di navigazione sulle acque calme del lago, a Samosir, l'isola nell'isola. Samosir e' la meta del nostro viaggio; e' qui che si trova la patria delle tribu' Batak. Il popolo dei Batak e' diviso in vari gruppi, il piu' antico dei quali, i Toba , vivono proprio sull'isola di Samosir. I Sumalungun, i Karo, i Mandailing, gli Angokoba, i Pakpak compongono gli altri gruppi di questa etnia. Complessivamente erano un popolo molto famoso per la sua ferocia: la loro usanza autorizzava il cannibalismo che spesso molti di loro praticavano in quanto mangiare e bere il sangue di un nemico era considerato un modo per ringiovanire. Anche i membri della comunità che infrangevano le regole del villaggio erano sottoposti allo stesso trattamento. Fino al secolo scorso erano considerati dai propri vicini un esercito feroce, che difendeva il proprio territorio da incauti invasori: per i malcapitati il taglio della testa e delle mani era consuetudine, come normale era esporre appesi questi macabri trofei di guerra. Nel villaggio le cerimonie religiose venivano officiate da un capo clan che si occupava anche delle offerte sacrificali agli spiriti degli antenati. Praticata in modo massivo era anche la stregoneria che veniva esercitata da un datu o stregone, spesso lo stesso capo del villaggio. Durante queste cerimonie venivano indossate maschere particolari, una delle quali, Sina, la piu' famosa, raffigura un animale mitico la cui testa e' spesso incisa con arabeschi decorativi ed e' posta sulla sommità dei tetti delle case e sui sarcofagi. Si tramanda che nei tempi passati era un onore portare queste maschere durante le cerimonie di inumazione di un defunto, e coloro che le indossavano venivano sacrificati alla fine del rito nel momento stesso in cui giungevano sul luogo della sepoltura. Il sacrificio era spesso esteso anche ad altre persone, per lo piu' schiavi, che venivano sacrificati nella stessa circostanza. Grazie all'isolamento nel quale hanno vissuto fino allo scorso secolo, queste popolazioni hanno potuto conservare intatti i loro usi e costumi. Ancora oggi i loro villaggi sono molto interessanti, con le loro caratteristiche abitazioni su palafitte di legno. La particolare struttura ad incastro delle capanne fa si che il tutto sia costruito senza ricorrere all'ausilio di chiodi. Alzando lo sguardo non si può rimanere indifferenti dalla vista degli strani tetti a forma di sella dove troneggiano sculture lignee al di sopra della paglia. Le facciate, finemente decorate con motivi geometrici multiformi e dai variegati colori ricordano spesso la simbologia religiosa che permea questi luoghi. Gli attuali abitanti sono molto cordiali e ci accolgono nelle loro case mostrandoci gli interni con un pizzico di orgoglio. Un capannello di ragazzi si fa intorno a noi quando un anziano comincia a raccontarci (Il buon Hidham ci fa da solerte traduttore) dei cacciatori di teste che vivevano sui monti al di la' delle montagne e che solo fino a pochi decenni prima solevano ancora praticare questa forma di macabra uccisione colpendo gli ignari viandanti che si avventuravano nel loro territorio. Oggi, dice il vecchio, il governo ha debellato questa piaga rendendo sicure le montagne, che ci indica con un gesto della mano, ma nelle quali non si sente ancora sicuro di avventurarsi. Hidham sorride al termine del racconto riferendosi alle leggende che ancora oggi nel XXI sec. vivono in queste parti dell'isola. Ma la sua faccia perde quel simpatico e sicuro sorriso non appena chiediamo di inoltrarci al tramonto verso i ripidi sentieri che salgono verso la montagna. Farfuglia balbettando alcune frasi incomplete, ma il senso che percepiamo e' inequivocabile "Non possiamo attraversare la montagna ci sono i cacciatori di teste che ancora sono a guardia degli spiriti dei loro antenati e che, anche se nessuno lo ammettera' mai, ancora oggi uccidono e si cibano delle loro vittime". A nulla e' servito il fatto offrire una generosa mancia per guidarci attraverso il sentiero. Hidham si e' fatto serio, ha perso ormai la sicurezza che lo ha accompagnato in questi giorni con noi e rifiuta di parlare ancora dei cacciatori di teste. Il rientro verso la normale civilta' ci lascera' sempre il dubbio di non aver trovato risposta ad una nostra domanda:" ma allora esistono ancora i cacciatori di teste?".
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