arte e mostre
Carlo Carrà, segno e colore
di Michele De Luca

Nella sua Storia della pittura del ventesimo secolo, uscita nel 1955, lo studioso tedesco Werner Haftmann scriveva: "Carlo Carrà non ha soltanto avuto per l'Italia una grande importanza dottrinale, ma è divenuto anche esponente di una esigenza morale, perché è riuscito a fondere le concezioni costruttive del pensiero francese moderno con i grandi valori tradizionali dell'arte italiana, con le solide definizioni delle cose che gli antichi maestri avevano dato. Nessuno ha compreso come Carrà l'intima poetica di Masaccio, la cui segreta forza irradiante ha turbato tanti artisti moderni, fino a Henry Moore. Carrà toglie alla forma di Masaccio tutto ciò che è aneddotico, torna a semplificarla nel senso dell'arcaico, fino alle forme fondamentali di Giotto, da cui lo stesso Masaccio era partito ... così tutta l'arte di Carrà vive del desiderio di definire a se stessa, mediante una arcaica semplificazione, la grandezza essenziale delle cose ... l'arte di Carrà non appartiene assolutamente all' arte dell'espressione. La forma è così chiusa che non si può aggiungerle più nulla. Essa eterna le cose della natura mediante la determinazione formale, che si compie al di fuori del sentimento. Per questo regna nei quadri di Carrà un così grande senso di pace. In molti di questi quadri l'Italia arcaica e paesana è veramente risorta nella sua antica solennità e nella sua malinconica grandezza".

Al genio creativo del maestro piemontese (Quargnento, Alessandria, 1881 - Milano 1966), tra i più importanti protagonisti dell'arte italiana del Novecento, è dedicata (fino al 15 giugno) una grande mostra alla Pinacoteca Provinciale di Potenza, che così continua (dopo quelle dedicate a Carlo Levi e Giorgio de Chirico) il ciclo di prestigiose esposizioni nate dal progetto "Polo della Cultura", promosso dalla Provincia di Potenza, e fortemente caldeggiato dal suo Presidente Vito Santarsiero, nell'affascinante contesto architettonico delle opere dell'architetto Marcello Piacentini e dell'ingegner Giuseppe Quaroni, due grandi progettisti dei primi decenni del secolo appena archiviato. La rassegna, "Carlo Carrà, la mia vita", curata da Elena Pontiggia e Massimo Carrà, prende il titolo dalla celebre autobiografia dell'artista recentemente ripubblicata dalla casa editrice Abscondita e comprende oltre settanta opere, che ripercorrono in maniera estremamente illuminante (anche con il prezioso ausilio dei saggi dei curatori e degli apparati critici e bio-bibliografici contenuti nel bel catalogo edito da Viviani) la sua ricerca sia nel campo del segno che in quello del colore.

Giovanissimo, Carrà lavorò come decoratore a Valenza, prima di trasferirsi appena quattordicenne a Milano, dove solo nel 1906, dopo soggiorni di studio a Parigi e Londra, si iscrisse all'Accademia di Brera, divenendo allievo di Cesare Tallone e trasfondendo nella produzione di quegli anni, in cui si individuano anche punti di contatto con la pittura divisionista, echi del tardo romanticismo lombardo ed influenze dei paesisti piemontesi. Nel 1910 fece parte del primo drappello futurista, di cui seguì le alterne fortune nelle esposizioni europee, iniziatesi a Parigi nel 1912, con un contributo che si espresse anche attraverso la collaborazione alle riviste "Lacerba" e "La Voce". Il suo passaggio alla pittura metafisica è testimoniato da una serie di quadri neoprimitivisti realizzati nel 1916, anno in cui incontrò a Ferrara de Chirico, Savinio e De Pisis; successivamente, la ricerca di un'immagine classico-arcaica lo portò a un processo di semplificazione formale fondato su un principio di idealizzazione geometrica del reale, in funzione mitica, che trovò in "Valori Plastici" un sicuro punto di approdo, per giungere poi alla riscoperta, complice un soggiorno in Liguria, della realtà naturale nell'ambito di un recupero del nuovo equilibrio formale e della tradizione della cultura italiana, all'insegna, appunto, del linguaggio plastico di Giotto e di Masaccio.

Il percorso espositivo, che si qualifica per la sua rigorosa compattezza e "leggibilità", attraverso una serie selezionata di dipinti e disegni documenta tutta l'opera di Carrà, dal giovanile realismo al divisionismo e alla stagione futurista, dal periodo metafisico a quello del "realismo mitico" degli anni Venti e Trenta, fino alle opere del dopoguerra. Suggestivamente la mostra si apre con una sala di autoritratti e con una serie di importanti ritratti a lui dedicati: da quello di Boccioni, datato 1911, a una caricatura di Mar inetti, da Manzù, che ne ambienta la figura nello spazio, rappresentandolo in un momento di assorta riflessione, a Marino Marini, che si concentra sul suo volto intenso e segnato. Il periodo futurista è documentato con un cospicuo numero di disegni, tra cui Ritmi di bottiglia e bicchiere del 1912, in cui l'artista "dialoga" con Picasso, Guerra navale sull'Adriatico (1914), testimonianza dell'interventismo che percorreva il movimento futurista, e Cineamore, esempio delle "tavole parolibere", ispirate ad Apollinaire, a metà fra poesia e pittura, che l'artista realizza tra il 1914 e il 1915.

Carrà primitivista e metafisico è presente con alcune opere estremamente significative, come Il prete, grande studio preparatorio per l'opera del 1916 I romantici ispirata ai Martiri di Belfiore, Manichino e Giocatore di dadi, entrambi del 1917, eseguiti nel periodo della stimolante frequentazione ferrarese con il "pictor optimus", mentre i successivi anni Venti rivivono in alcuni paesaggi, come Paesaggio in Valsesia (1924), significativo esempio della stagione "cézanniana", lo storico Mulino delle Castagne, esposto alla prima Mostra del Novecento Italiano nel 1927, la famosa Casa Abbandonata, un paesaggio lirico ed elegiaco, incentrato sul tema della solitudine esistenziale. E ancora, per documentare la ricerca dell'artista nell'ambito della pittura murale, viene esposto il grande Studio per Giustiniano; mentre il percorso espositivo, denso di emozioni e di sollecitazioni culturali, si conclude con la commovente Stanza dipinta nel 1965, un anno prima della morte, in cui l'artista nella camera vuota e nella porta nera dello sfondo sembra alludere a una sorta di estremo congedo.