teatro Una sofisticata partita a tre sul filo di una memoria continuamente messa in crisi, fino a rivelare le falle in un rapporto di coppia: così Pippo di Marca affronta un testo classico di Harold Pinter, per il Florian Metateatro: "Vecchi tempi", con Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio. Nel testo dello scrittore inglese, tradotto da Alessandra Serra, una coppia matura e una vecchia amica di lei, ritornata dal passato, danno vita a una sorta di classico triangolo borghese, che si trasforma in una resa dei ricordi. Appuntamento a Teatri di Vita (via Emilia Ponente 485, Bologna; tel. 051.566330; www.teatridivita.it), dal 18 al 20 novembre (venerdì ore 21, sabato ore 20, domenica ore 17). Domenica, dopo lo spettacolo, è previsto un incontro con la compagnia. Un uomo e una donna vivono da soli in una casa solitaria vicino al mare e una sera aspettano a cena una vecchia amica di lei. Non si vedono da vent'anni, con l'uomo non si conoscono. Quando l'amica arriva si crea un triangolo apparentemente classico. In realtà è come se tutto il loro mondo, sia della coppia che dell'ospite, deflagrasse. Niente è più come prima, nessuna cosa o impressione o ricordo è certa: tutto è ambiguo, è come se la loro vita e i loro ricordi fossero inconsistenti, improbabili, addirittura irreali, cioè impossibili. E il finale è sospeso, come le loro vite, sospeso dalla stessa vita: un rebus che non ha conclusione. Nascosta dietro l'apparenza di una innocente e realistica commedia, il testo offre uno scenario man mano diverso, in cui, attraverso l'uso del linguaggio, emerge tutta la drammaticità dell'incomunicabilità fra i personaggi. Pippo di Marca ha trattato il testo con uno sguardo indagatore, da filologo, scavando nel senso delle parole come un archeologo, fino a svelare la condensa di oscurità e di nevrosi che investe i personaggi, incapaci di condividere un ricordo in maniera oggettiva. Pippo di Marca è uno dei protagonisti del nuovo teatro italiano fin dagli anni 70, quando inizia la sua attività di regista a Roma, sviluppando un teatro aperto, visionario e totale, che ha portato in tutto il mondo. Un teatro creato in omaggio a molti punti di riferimento a cominciare da Lautréamont e Duchamp, per continuare con un confronto serrato con la grande drammaturgia, da Ibsen a Cechov, da Strindberg a Beckett. Negli ultimi anni si ricordano l'allestimento del testo dadaista "L'Imperatore della Cina" e la tetralogia su e da Roberto Bolano. Di Marca è anche autore di diversi libri, tra cui "Scrivere il Teatro" (Bulzoni), "Meta-Teatro e oltre" (Edizioni del Meta-Teatro), "Sotto la tenda dell'avanguardia" (Titivillus) e il romanzo "Brasile, addio" (Archivi del Sud). Il testo, anche in quanto "storia", l'ho affrontato con uno sguardo direi da filologo, o da archeologo, e dunque "scavando". Scavando scavando, con la collaborazione degli attori, è venuto fuori che la commedia si tinge di dramma; e forse è qualcosa di più: una specie di delirio, una sorta di piccolo "inferno". Al di sotto delle apparenze e delle "conversazioni", più o meno accese o pausate, emerge un climax vagamente "noir", di oscurità, di foschie, di nevrosi, di incomunicabilità, e su tutto soffia, specialmente nel finale, un alone di morte.
Per queste ragioni, ho sentito la necessità di inserire, all'inizio e alla fine dello spettacolo, le didascalie indicate nel testo: perché ne costituiscono la perfetta cornice "drammaturgica". E sembra addirittura ci dicano che i personaggi, "immobili", chiusi in quella stanza, quasi fosse il sarcofago dei loro ricordi e delle loro vite, da lì non usciranno più.
articolo pubblicato il: 15/11/2016 |