Umberto Bindi è morto. La notizia ha provocato, come del resto era prevedibile, diverse reazioni, compresa quella tutta italiana di salire sul carro del vincitore (in questo caso un carro funebre). Le agenzie non avevano quasi ancora finito di battere i dispacci che già persone che da quaranta anni invadono il video con la loro presenza hanno dichiarato che stavano aiutandolo, che volevano rilanciarlo, che lo avrebbero ospitato nelle loro trasmissioni. Solo che per quaranta anni loro sono stati sulla cresta dell'onda, mentre il più grande cantautore della cosiddetta "Scuola di Genova" è vissuto in indigenza.
L'Italia è cambiata molto da quel Sanremo 1962 che segnò la sua fine artistica (qualcuno scrisse che era "invertito", come si diceva allora, e a quell'epoca non era trendy esserlo) e fu espulso dal mondo radiotelevisivo. Il comune senso del pudore (secondo la definizione della vecchia commissione di censura cinematografica) cambiò ben presto; in televisione negli anni settanta cominciarono ad apparire donne discinte ed ad essere dibattute tematiche che dieci anni prima sarebbero state impensabili. Nonostante ciò Bindi ha seguitato ad essere out fino al Sanremo del 1996, quando ormai, anziano e stanco, non poteva più sperare di riagguantare un minimo di successo.
Qualche anno fa un presentatore "immarcescibile" (adesso si dichiara dispiaciuto per la perdita) organizzò una votazione per stabilire la più bella canzone del secolo; non mise nemmeno in lista "Il nostro concerto". Bindi ha scritto canzoni piene di malinconia, di struggimento, di simboli. Per le orecchie di chi era ragazzo era impossibile capire che certe delicate parole d'amore non fossero dedicate ad una donna. Erano canzoni bellissime, come "Riviera" (mai più passata in radio, forse nemmeno su una delle centinaia di private esistenti in Italia). Ma in una compiuta opera d'arte le parole d'amore, a chiunque siano rivolte, restano indimenticabili.