La grande scultura La Resurrezione della Sala Paolo VI in Vaticano, nota anche come Sala Nervi, realizzata da Pericle Fazzini tra il 1972 e il 1977, č un lavoro che per la sua portata storica e per la prestigiosissima collocazione puň essere considerata come il risultato ideale di tutta una vita artistica. In essa č facile trovare riassunti i “grandi amori” dello scultore marchigiano, nato a Grottammare, Ascoli Piceno, nel 1913 e scomparso a Roma nel 1987: “il senso fisico di pelle sulle costole” che giŕ nel 1930 lo avvicina al barocco e a Rodin, il furor che lo porta a scavare nelle superfici intricate e contorte della natura, l’esplosione di una spiritualitŕ nativa e panteistica; infine, il “mestiere”, che lo spinge ogni volta a ricercare nuove soluzioni tecniche. Con il risultato dichiarato di voler rendere un’immagine del Cristo che “vola spinto dal vento, si libera dal velo mortuario, si trasforma da cadavere in uccello”; un Cristo risorto dalle rovine che sembri invocare una ricaduta, che “non vuole considerare il suo abbraccio col Padre come un addio dagli uomini”.
Questa colossale fatica, che si colloca in una fase ormai matura della vicenda umana e dell’iter creativo di Fazzini, ha avuto il grande merito di riscattare la pesantezza in cui era caduta la scultura monumentale tradizionale, in quanto rivaluta e rende attuali quegli elementi del linguaggio seicentesco, da cui fu affascinato fin da adolescente, quali l’immediatezza dell’immagine, la metamorfosi della natura, l’uso di elementi vivi come l’acqua e il vento. E si pone come “punto di arrivo” di un viaggio poetico ed estetico iniziato addirittura da bambino, insieme ai suoi numerosi fratelli, nella grande falegnameria del padre Vittorio, esperto intagliatore ed ebanista e, nei momenti liberi, anche scultore.
Nell’incomparabile scenario di Villa d’Este, a Tivoli, all’interno del palazzo e del giardino voluti nella seconda meta del XVI secolo dal cardinale Ippolito II d’Este, č esposta ora una grande antologica che rievoca l’intero percorso creativo di Pericle Fazzini, che incarna sicuramente la piů avanzata ricerca scultorea nella scuola romana degli anni Trenta (periodo in cui si concretizza il momento piů intenso della sua esperienza artistica), con risultati di grande interesse, oltre che nelle celebri figure lignee, anche nelle prove in gesso, pietra, bronzo e terracotta. In questa fase, dedicata quasi esclusivamente al legno, lo scultore crea un’umanitŕ remota e silenziosa, raffigurata con un linguaggio plastico semplice e istintivo che rinvia alla lezione dei grandi “quattrocentisti”, dalle cui sculture si sprigiona – come egli diceva – “una forza di espressione e un senso dell’armonia che č impossibile imitare, e in cui č tutto il segreto della loro grandezza”.
E’ il legno, infatti, la materia in cui meglio si traduce l’ardore espressivo di Fazzini, che in un’intervista rilasciata nel 1938, in occasione della sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia, alla rivista “Quadrivio”, cosě affermava: “Preferisco il legno alle materie su cui lavorano in genere gli altri scultori per una ragione semplicissima: che mi piace scolpire invece di modellare. Il legno mi dŕ una specie di voluttŕ, come non potrebbero il marmo o il metallo. Io ho fatto dei ritratti, dove mi sono preoccupato di trasportare non soltanto la rassomiglianza fisica del modello ma l’espressione vitale che da questo modello si sprigionava sposandola alle qualitŕ caratteristiche del materiale in cui era tradotta la statua”.
La mostra a cura di Giuseppe Appella, promossa dal Ministero per i Beni e le Attivitŕ Culturali – Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio con il supporto di Anas ed Enel, accoglie, fino al 30 ottobre, settanta sculture (unitamente a trentacinque disegni), da quelle maturate nella bottega del padre e a Roma, dove arriva, sedicenne, nel 1929 ed č subito attratto dal Borromini e dal Bernini, fino alle Colombe, un magnifico bronzo fuso pochi mesi prima della sua morte. Organizzata da ATI – De Luca Editori d’Arte – Mostrare (cui si deve anche la pubblicazione del catalogo), in collaborazione con Crisalide, l’esposizione si avvale di un comitato scientifico composto da Maria Vittoria Marini Clarelli, Francesco Buranelli, Pier Giovanni Castagnoli e Giandomenico Romanelli, nonché, per quanto riguarda l’allestimento, di uno specialista della scultura quale l’architetto Alberto Zanmatti.
Quanto il barocco abbia contato nel lavoro dell’artista marchigiano, e nello sviluppo delle straordinarie sue qualitŕ plastiche (giŕ evidenti in opere come l’Autoritratto del 1931 e nel Ritratto di Birolli del 1932), emerge con prepotenza nell’Uscita dall’Arca, del 1932, che innesta nei successivi ritratti, una istintiva foga d’intaglio, un getto movimentato e prepotente delle masse, che, come ben vide Ungaretti, rimarranno radicate nel sentimento e nella fantasia, simili al “favoloso furore del vento, furia della danza”. Le sculture eseguite negli anni immediatamente successivi (tra cui Figura che cammina, Danzatrice, Giovane che declama, Ritratto di Ungaretti, Ragazzo con i gabbiani, tutti veri capolavori che si possono ammirare a Villa d’Este) sono il riflesso di una “classicitŕ” maestosa e al tempo stesso attuale, concentrata nei gesti delle figure che specchiano la loro lirica aderenza alla realtŕ nella lezione di Donatello e di Michelangelo e di questa si liberano immergendo il dato obiettivo nella poeticitŕ dell’invenzione e nell’estro della forma librata nello spazio.
Il “gesto” e il “movimento” (in opere realizzate soprattutto negli anni Cinquanta, quali Ragazzo sulla spiaggia, Donna con drappo, Donna nel vento, Donna al sole) saranno alla base delle successive scelte (del materiale, degli effetti formali, degli atteggiamenti, della stessa attenzione alle ricerche del cubismo e dell’astrattismo), come dimostrano i suoi nudi armoniosi, con la loro tensione a tradurre di ogni atto lo spirito piů che il disegno realistico e ad imprimere nella forma una concentrazione di energie contrastanti con esiti di forte drammaticitŕ e di autentica religiositŕ; nella realizzazione di una scultura intesa come armonoia di chiari e scuri, di ritmi, contrasti, coniugati per quanto possibile – come accade principalmente nei bassorilievi – in una architettura che renda organiche le forme.
Come ci dice Appella, Fazzini “trova nel legno la materia piů adatta a scolpire, a determinare l’immagine concreta di un volto che racchiuda nella veritŕ psicologica quella poetica senza mai sacrificare la forma plastica. Con accanimento, e una produttivitŕ inesauribile, ogni aspirazione diventa un atto naturale, ineluttabile, e la stessa deformazione č solo uno studio del movimento. Non la verosimiglianza, č il suo problema, ma il significato di un gesto, non il virtuosismo elegante della modellazione, non la retorica funeraria, ma piuttosto il bisogno di una scultura che faccia vivere l’oggetto rendendo visibile, sistematico e plastico il suo prolungamento nello spazio”. Nell’opera di Fazzini risalta l’importanza che per lui ebbe, piů che il soggetto, il come risolvere il soggetto stesso, la sua passionalitŕ esplicita nell’esaltazione della forma, in una sorta di gioco espressivo e di piacere della rappresentazione; in uno stile – dice ancora il curatore dell’evento espositivo – “che cerca di emancipare la forma rendendola sempre piů sintetica, con la spiritualitŕ penetrante del poeta, il tedio doloroso, gli smarrimenti intellettuali di chi ha pensato e vissuto con il cuore il tempo della sua vita”.