La prima tutela pensionistica italiana si fa comunemente risalire al 1898 con l'istituzione,
con legge 17 luglio 1898 n. 350, della Cassa Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la
Vecchiaia degli operai , con il compito di gestire forme facoltative di assicurazione; venne scelta l'adesione facoltativa, con scarso successo per l'entità delle adesioni. Dopo la prima guerra mondiale venne sancita l'obbligatorietà dell'assicurazione di invalidità e vecchiaia per tutti i lavoratori dipendenti da privati eccetto gli impiegati con stipendio superiore alle 350 lire mensili.
Il sistema istituito nel 1919 venne perfezionato con varie leggi successive e le
caratteristiche di questo sistema possono così sintetizzarsi:
a) il finanziamento era basato sulla contribuzione paritaria dei lavoratori e dei datori di
lavoro, con un modesto intervento dello Stato che corrispondeva a 100 lire per ogni
pensione liquidata;
b) il regime tecnico-assicurativo era quello della capitalizzazione.
c) la formula di calcolo era quella contributiva, in funzione cioè dell'ammontare dei
contributi versati dal singolo;
d) l'età di pensionamento era fissata, per uomini e donne, a 65 anni, un'età estremamente
elevata in rapporto alla speranza di vita, all'epoca molto inferiore rispetto a quella attuale.
"Il sistema, così impostato, venne travolto dalla seconda guerra mondiale. Le riserve, già
tecnicamente inadeguate, vennero polverizzate dall'inflazione e le prestazioni, già di
modesto importo, divennero del tutto irrisorie."
Dopo un periodo di transizione, caratterizzato da provvedimenti di emergenza,
l'assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti venne riordinata con la legge 4
aprile 1952, n. 218. Con questa legge il sistema tecnico della capitalizzazione venne di
fatto abbandonato. Infatti, solo per una quota minima di contribuzione, progressivamente
ridotta e denominata "contribuzione base", era prevista la capitalizzazione, mentre la
pensione adeguata, che era la vera misura della prestazione, era finanziata con il sistema
della ripartizione. Venne inoltre introdotta una innovazione fondamentale che è l'istituzione
del regime del trattamento minimo.
Oggi dopo una lunga sequela di riforme pensionistiche, che hanno visti protagonisti tutti i governi di ogni orientamento sociale (sia di destra, sia di sinistra, sia di centro, sia sedicenti tecnici, sia sedicenti politici) siamo tornati a tutti gli effetti alla normativa del 1989, cioè al sistema così detto a capitalizzazione, il tutto sotto gli occhi distratti dei sindacati e di tutti coloro che dichiarano di avere a cuore le sorti della collettività.
Non credo che sia necessario ricorrere alle chiromanti o a qualche genio della statistica per capire che il sistema a capitalizzazione è destinato al fallimento ancora una volta perché nel lungo periodo non può essere in grado di assicurare il mantenimento di una buona parte del tenore di vita per il lavoratore che smette di lavorare per raggiunti limiti di età.
I conti li può fare chiunque con un poco di buona volontà e una calcolatrice; il risultato è sempre lo stesso: qualora anche si prefiguri un lunghissimo periodo in assenza di riduzioni del potere d'acquisto, cioè considerando che gli interessi maturati sulle somme accantonate possano assicurare un mantenimento del potere d'acquisto e sempre sperando che non si verifichino altri casi di fallimento di grandi Istituzioni Bancarie e Nazionali (vedi Argentina ecc), il novello pensionato, nella migliore delle ipotesi, si dovrà accontentare del 35% dell'ultimo stipendio. Per ovviare a questa drammatica situazione dovrebbe fin dal primo giorno di lavoro accantonare, oltre a quanto destinato al sistema pensionistico obbligatorio, almeno il 35/40 % del proprio salario per una forma di investimento privato da destinare a rendita integrativa della pensione. Quando parlo di investimento privato non ritengo fare alcuna distinzione tra forma di investimento pensionistico di tipo assicurativo o una qualsiasi altra forma di investimento, che in ogni caso rappresenta un'azione imprescindibile dal mantenimento entro termini accettabili del tenore di vita dopo il collocamento in quiescenza.
Siamo ritornati al 17 luglio 1898 sotto gli occhi distratti di tutti coloro che dichiarano di avere a cuore gli interessi dei lavoratori. Sindacalisti e politici di ogni colore, ancora una volta la storia non ha insegnato nulla. Non perché la storia non dia elementi precisi ed inequivocabili, ma nella migliore delle ipotesi, perché chi si interessa della gestione della "cosa comune" è talmente impegnato da non avere tempo di studiare la storia. Eppure la storia ha un grande pregio rispetto alla matematica o la filosofia: non deve essere capita, basterebbe leggerla e ricordarla.
articolo pubblicato il: 11/11/2010