Al di là di ogni ragionevole dubbio, lo scrittore americano Thornton Wilder non aveva mai sentito parlare della
località di Piuro, in Valchiavenna (Sondrio) quando ideò "Il ponte di San Luis Rey". Eppure leggendo le antiche cronache del
disastro che nel 1618 provocò la morte di mille persone (secondo le stime più prudenti) il pensiero corre al capolavoro di
Wilder, alla morte che arriva per caso o, per chi vuole, per destino.
Era Piuro un importante borgo sulle rive del Mera, il fiume che, partendo dall'Engadina e discendendo la Val Bregaglia
(la zona di lingua italiana del Cantone dei Grigioni) dopo Chiavenna va a formare, insieme all'Adda, il lago di Como. La
frana che all'imbrunire del 3 settembre seppellì l'intero paese (24 agosto secondo il calendario giuliano da alcuni ancora
seguito) si presta ad un'interpretazione wilderiana perché gli antichi abitanti di Piuro erano dediti in larga misura al
commercio di "laveggi" (recipienti di pietra ollare, la lapis viridis citata da Plinio, molto apprezzati per la cottura dei
fagioli alla corte di Ludovico il Moro) e di altre mercanzie.
Il cronista Quinto Lucino Passalacqua, nel descrivere il
borgo prima della catastrofe, metteva in evidenza le enormi ricchezze accumulate nelle case dei piuraschi e l'abitudine di
molti abitanti di non vestire all'italiana, bensì secondo le usanze dei Paesi con i quali si erano trovati maggiormente in
contatto per i loro traffici; si vedevano in giro per Piuro uomini vestiti alla tedesca, alla francese, alla spagnola e
addirittura all'inglese. La morte o la salvezza degli uni e degli altri fu determinata dal trovarsi o meno in paese quel
pomeriggio fatale.
Di una famiglia di una dozzina di persone si salvò solo un ragazzo che si trovava per lavoro a Lipsia; Nicolò
Vertemate Franchi era tornato da San Maurizio (St. Moritz) intorno al mezzogiorno, mentre solo un quarto d'ora prima della
sciagura suo fratello Ottavio era tornato da Delebio, in Valtellina; numerosi mercanti di laveggi che tornavano cantando e
scherzando dalla grande fiera di S. Alessandro di Bergamo del 26 agosto, felici per i grossi affari che avevano fatto, non
ebbero il tempo di rientrare nelle proprie abitazioni: morirono tutti a pochissima distanza dal borgo. Sempre a motivo di
commercio morirono un altro fratello Vertemate Franchi, Giovanni Battista, che si era mosso dalla sua casa di Roncaglia per
parlare di affari, e Cristoforo Giano, che fu sorpreso dalla frana mentre usciva dal paese per tornarsene nella sua Val
Sursette dopo aver acquistato una partita di vino.
Naturalmente non tutte le morti e le salvezze furono dovute al
commercio; si salvò la famiglia di Gian Pietro Fratini, recatasi pochi minuti prima a raccogliere del fieno (morì una figlia
che era tornata indietro a chiudere la porta di casa lasciata aperta per errore), si salvarono l'oste Francesco Forni e il
muratore Simone Ramada che si erano recati a prendere il vino per la cena in una grotta poco distante, se la cavò con la sola
perdita delle scarpe il muto Battista Planta, intento a raccogliere pesche in un frutteto.
Quanto all'evento si sé, non c'è molto da dire. Assomiglia a quanto è avvenuto (per tutt'altre cause) a Longarone nel
Bellunese nel 1963 e in Valtellina nel 1987. Giorni di piogge incessanti, in Valtellina montagne forse troppo perforate dalle
miniere (l'acqua dell'Adda scorre per decine di chilometri in galleria), a Piuro (come a Longarone) prodromi non tenuti nella
debita considerazione.
A Piuro non fecero caso a due piccole frane già avvenute, ritennero un fatto quasi
soprannaturale la fuga impazzita di migliaia di api dalle arnie sulla montagna intorno al mezzogiorno, dettero dell'ubriaco
al contadino Pietro Focus che, sempre a mezzogiorno, mentre tagliava rami sentì la scure cadergli dalle mani, l'albero quasi
sradicarsi sotto di lui e osservò uno grossa frattura nel terreno.
Fu così che sicuramente mille (ma alcuni cronisti parlano di duemila) persone scomparvero per sempre sotto il monte Conto.
articolo pubblicato il: 06/06/2010