Bergamo, preparazione alla Pasqua; i frati domenicani celebrano l'evento nella Chiesa di San Bartolomeo con una installazione dell' artista Vittorio Bellini.
Il dialogo secolare tra Chiesa e arte é servito per rappresentare e per rafforzare la fede tra le genti, un mezzo di formazione e di sedimentazione della cultura religiosa che, fissando i canoni della rappresentazione, ha elaborato un linguaggio comune atto alla trasmissione dei credi, una forma di scrittura che si é sviluppata per immagini. Grazie poi alle posizioni e alle difese degli ultimi pontefici, anche l'arte contemporanea ha finalmente potuto accedere ai luoghi di culto.
La mostra "il dolore, dopo" presso il Centro Culturale San Bartolomeo di Bergamo dal 28 marzo fino al 10 aprile, ci propone una selezione di opere di Vittorio Bellini.
Un progetto che intende contribuire al dialogo tra Chiesa e arte con la voglia di incoraggiare quella storica amicizia tra la fede e l'artista, alla conoscenza e al rispetto delle religioni, ma soprattutto un'esortazione ad affrontare senza possibilità di equivoco la sofferenza che è sì archetipo della condizione umana, ma anche purtroppo attualità straziante con cui non possiamo non confrontarci ogni giorno.
Vittorio Bellini dà prova di essere uomo di fede pura, non imposta, e artista nel senso più profondo e nobile del termine. Ben poco concede alle sue creature per conciliarle con il mondo. Le sue sculture non condividono nulla con le forme estetizzanti mostrate in ogni dove per nasconderci in modo fittizio e senza riuscirci il dolore, il disincanto e la disperazione nel suo prima e nel dopo. Anzi, con esse ci immergiamo completamente in questi stati profondi.
Ed è sempre stato questo il compito dell'artista: non solo esprimere la propria personalità attraverso le proprie creazioni, ma riuscire a trasmettere messaggi universalmente validi e condivisibili.
Le statue di Bellini sembrano avere un solo compito: farci toccare l'evidenza dell'essenza umana, non farci scappare dal dolore e dalla condizione che esso crea. E' proprio la concretezza, la ruvida e brutale realtà di queste crude immagini, realizzate con materiali poveri come juta, stoffa, cemento e sabbia a creare lo stretto legame con la sofferenza.
... se il Figlio di Dio é entrato nel mondo della realtà visibile,
gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l'invisibile,
analogamente si può pensare che la rappresentazione del mistero possa essere usata,
nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero.
(Giovanni Paolo II, Lettera agli Artisti, 24 aprile 1999)
La "bellezza" è anche "verità". Ma a volte la bellezza si sacrifica per la verità che non può concedere nulla alla forma espressiva per non perdere il suo carattere di evidente certezza, di esperienza vissuta nella carne. Nasce allora un'altra bellezza che è però conosciuta soltanto da chi è iniziato dal dolore.
Vittorio Bellini, con l'esposizione di queste recenti opere nella mostra allestita al Centro San Bartolomeo, ben poco concede alle sue creature per conciliarle con il mondo. Le sue sculture non condividono nulla con le forme estetizzanti mostrate in ogni dove per nasconderci in modo fittizio e senza riuscirci il dolore, il disincanto e la disperazione nel suo prima e nel dopo. Anzi, con esse ci immergiamo completamente in questi stati profondi.
Ma se poi riusciamo ad accettare la sua "verità" è perché le sue statue sono "dolore dopo", sono tracce di ciò che resta del "naufragio" della condizione umana dopo che lo si è vissuto.
In un momento in cui tutti (o quasi) cerchiamo di danzare al di sopra della reale condizione umana in modo da non essere toccati da nessuna "ferita" (e chi più sa accettarne una ?!!), Bellini ci mostra senza possibilità di equivoco che la realizzazione più vera della nostra vita sta proprio nel saper accettare le "ferite" che riceviamo (anche senza colpa).
Quel Cristo morto, quelle figure del Compianto, quel Giuda, quel Mosè, quelle Pietà, non gridano più, non urlano più il loro dolore. Sono la testimonianza di una accettazione che ha portato queste presenze ad essere i testimoni che la vita attende sempre e comunque la sua "Resurrezione". Archetipi di quella che ogni uomo, che ognuno di noi, attende.
Il messaggio di Bellini è quindi profondamente cristiano, non tanto solo nelle forme e nei temi, quanto nella essenza stessa che è tensione all'Amore, che nasce dall'Abbandono e dalla accettazione del Destino senza riserve e senza rifiuti.
Fondamentale in questa rappresentazione della metafora della vita è il peso che questi panneggi ispirano, diventando nello stesso tempo la forza che essi rivestono, proprio perché assunti, sostenuti nonostante tutto. Arruffati e contorti, piegati e ruvidi, talvolta lacerati, essi escono con veemenza dal ricordo della classicità, ne incarnano lo spirito, ma nel contempo ne sono l'antitesi. Veri cilici della gravità della vita dell'uomo moderno, combattuto tra presente e passato, tra paure e ricordi, in tensione continua con se stesso e col mondo. Tormentati nella realizzazione, straziati nelle forme, sommari nella policromia sebbene talvolta raffinata o decisa, essi incorniciano, accompagnano e fanno tutt'uno con quei visi scavati e quasi informi, consumati e tumefatti che fanno capolino da là sotto.
Scopriamo che costituiscono l'archetipo del dolore dopo, di quel senso di sofferenza che tocca ognuno e che Bellini trasmette universalmente rappresentando visi esasperati nell'accettazione della sofferenza. Fino all'estrema astrazione nel volto anonimo fatto di tela grezza della Vergine che sostiene Cristo nella Pietà. Ognuno o uno di noi.
Talvolta la loro precaria stabilità, come in talune figure del Compianto o il loro incedere incerto come in Giuda, diventano la loro forza, non solo fisica, bensì morale.
La straordinaria umanità del volto di Mosè, avvolto in quel delicato copricapo vinaccia che ne fa ancor più risaltare lo stato in cui è compreso nella sua sofferenza per l'incondizionata obbedienza all'imperativo divino, o quella dell'esile San Paolo, filiforme, che affonda il ricordo in certi bronzetti nuragici o mesopotamici o in talune sculture lignee romaniche, con una tensione essenziale, in un gioco d'ironia dove la testa resta scoperchiata.
Essi ci avvertono, consumatum est, che tutto è compiuto. Come quel Cristo arcuato nel busto, quasi in una disperata opposizione alla fine del suo compito.
Le tre Pie donne completamente velate davanti al corpo del Maestro adagiato, sembrano incorniciarne la testa come tre vette montuose all'ombra di una gola innevata dove la lingua di un ghiacciaio si ritira in un respiro universale. Nel loro coprirsi completamente infondono quel senso d'isolamento che significa stare profondamente nel dolore; non mi vedo dolorante dunque credo di soffrire meno, anche se per il cristianesimo il coprirsi assume un significato particolare per restare dentro il dolore e viverlo fino in fondo.
Si tratta di opere particolarmente rappresentative della maturità umana e religiosa raggiunta da Vittorio Bellini, di quell'ascolto profondo e silente degli stati d'animo a cui l'artista è giunto dopo l'esperienza di una vita e i molti anni di lavoro su di sé, tanto che è difficile immaginare quali potrebbero essere gli ulteriori passi del suo percorso artistico, visti gli esiti assolutamente intensi.
Bergamo, Centro Culturale San Bartolomeo - Largo Belotti, 1
28 marzo - 10 aprile 2009
Orario: tutti i giorni ore 10.00 - 12.00 / 16.00 - 19.30 -
Ingresso libero