Steve McCurry (Philadelphia, 1950) deve aver senz’altro letto la bellissima frase di John Steinbeck “Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone”. Da tempo, infatti, ci ha assuefatti con le sue immagini mozzafiato realizzate girovagando – si direbbe alla ricerca di se stesso - per i sei continenti e in numerosi paesi; gli occhi verdi della sua stupenda “ragazza afgana” (il più potente, celebre e conosciuto dei suoi scatti), divenuta un simbolo di guerra e di bellezza, ci sono rimasti, fissi nella mente e oramai non ci abbandoneranno più. Il suo lavoro spazia dai conflitti alle culture in via di estinzione, dalle antiche tradizioni fino al mondo contemporaneo in cui, nonostante tutto, prevale sempre l’elemento umano. “Ho imparato ad essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te”; e ancora, “il solo viaggiare e approfondire la conoscenza di culture diverse mi procura gioia e mi dà una carica inesauribile”. Il suo percorso umano e intellettuale si intreccia in modo simbiotico con quello della sua professione, in un continuo viaggiare con la sua fotocamera e facendo così del “viaggio”, come un Odisseo dei nostri tempi, una scelta ed una dimensione di vita.
Dopo aver studiato cinema e storia alla Pennsylvania State University, McCurry decide di recarsi per un reportage in India; vi si ferma due anni e dopo la pubblicazione del suo primo importante lavoro sull’Afghanistan comincia a collaborare alle più prestigiose riviste, come “Time”, “Life”, “Newsweek, “Geo” e “National Geographic”. Inviato nei punti “caldi” del pianeta, si spinge in prima linea a rischio della vita per dare una testimonianza diretta dai fronti di guerra, da Beirut alla Cambogia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia; membro dell’agenzia Magnum dal 1985, ha vinto i più prestigiosi premi, tra cui alcuni “World Press Photo Awards”; suo è il celeberrimo servizio sulla ragazza divenuta icona simbolo del conflitto afgahano sulle pagine del “National Geographic”.
McCurry, spinto da una inesauribile “curiosità” verso le regioni più lontane e sconosciute del pianeta, ha la capacità (il “dono”?) di svelarne con le sue foto la loro identità più profonda, volendo poi – come ha detto – trasmettere ai visitatori delle sue mostre “il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”.
Ci fa condividere ora al Palazzo delle Albere di Trento un inedito e affascinante viaggio tre le altitudini del mondo: l’Afghanistan, il Tibet, la Mongolia, il Giappone, il Brasile, la Birmania e poi le Filippine, il Marocco, lo Yemen narrano le simbiosi tra popoli, animali e paesaggi secondo la cifra espressiva che lo ha reso uno dei fotografi contemporanei più amati. Nella mostra intitolata “Steve McCurry. Terre alte”, curata da Biba Giachetti e Denis Isaia, nell’ambito di un progetto che accomuna il Mart e il MUSE, centotrenta foto descrivono il fascino della montagna, la fierezza dei suoi popoli, la struggente bellezza dei suoi paesaggi, l’incanto dei suoi silenzi, lo spirito delle vette, la sacralità, gli sguardi e la forza della vita in condizioni spesso estreme. La narrazione delle altitudini sospese fra cielo e terra cattura l’armonia fra paesaggio, esseri umani e animali che ancora resiste, sottolineandone la fragilità: tra poesia ed ecologia, vicenda umana e ricerca artistica, tesa a cogliere e trasmettere al nostro sguardo la bellezza del nostro pianeta; mai stato – purtroppo – così tanto in pericolo.
articolo pubblicato il: 22/07/2021