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speciale libertà d'informazione e diritto all'ono
introduzione al problema
di Norberto Gonzalez Gaitano

Un umorista francese, le Fourchadière, affermava sarcasticamente, appena 60 anni fa, che ci sono due professioni nel mondo che non richiedono preparazione: l'attività dei banchieri che giocano col denaro degli altri e l'attività dei giornalisti che giocano...con l'onore dei loro concittadini. Mi sembra che, a parte ironie o battute, tale giudizio rifletta due problemi che riguardano la professione giornalistica. La prima ha a che vedere con la mancanza di formazione specifica e di riconoscimento legale dei giornalisti fino a tempi recenti. La seconda, si riferisce alla percezione comune dello scontro abituale fra l'onore e le esigenze dell'informazione.

Ci sarà sempre nella storia un conflitto fra il bene della reputazione dei cittadini e il bene della libertà di critica politica -e non soltanto politica-. Entrambi beni giovano alla salute di un regime democratico. Senza la libertà di critica il potere diviene facilmente tirannico, quando non corrotto.
Senza il rispetto alla reputazione legittimamente guadagnata, non c'è più società perché si sfumano le differenze fra i furbi, i malfattori, i ladri e la gente per bene:
“La critica può non sembrare gradevole, è però necessaria. Essa compie la stessa funzione del dolore nel corpo umano: attira l’attenzione sullo sviluppo di uno stato malsano delle cose. Se ci si bada in tempo, è possibile scampare il pericolo. Se il dolore va eliminato, ci si può sviluppare una malattia mortale” (Winston Churchill, intervista al New Statesman, 1939).

Vale il giudizio di Churchill anche per quel tipo di critica che si spinge fino al ridicolo, a farsi beffa dei simboli e addirittura anche delle persone? Il cardinale Newman, che dovette subire le critiche, le ironie e anche le calunnie di molti suoi contemporanei per essere diventato cattolico in una cultura che scherniva i cattolici e che era piena di pregiudizi su di loro, restava zelante nel difendere la libertà di critica: “In un paese libero come il nostro, non posso condannare che si ridicolizzino gli individui, chiunque essi siano; e sarebbe un giorno ben triste quello in cui si vietasse il ridicolo. Dal Lord cancelliere al primo ministro giù giù fino al ciarlatano o imbonitore più effimero che fa strabiliare il mondo con la sua impudenza assurda, c’è da augurasi che possano essere tutti messi in ridicolo da chiunque decida di far loro il proprio bersaglio. E’ l’unico modo per liberarsi facilmente e delicatamente di tante offese, imbrogli, seccature e follie; è l’espressione più salutare dell’opinione pubblica”.

Newman stesso fa buon uso della derisione per sconfiggere discorsivamente i pregiudizi anticattolici nel suo magistrale saggio. E, ammettendo che possa esserci una linea divisoria seppure sottile e difficile da tracciare, fra l’ammissibile e lo scorretto nel mettere in ridicolo la religione, si esime del compito di trovarla e conclude: “non ho alcuna intenzione, se posso fare a meno, di proteggere gli uomini della religione sotto il mantello della sacralità della religione”2. Vediamo qui all’opera un salutare principio di correzione degli abusi e delle strumentalizzazioni della religione così presenti nella storia.

Non bisogna dimenticare che “il ridicolo sta alla argomentazione come l’assurdo alla dimostrazione”. Reboul riprende il celebre esempio del Trattato della argomentazione di Perelman e Olbrecths-Tyteca: “Nel momento in cui, in un teatro di provincia, il pubblico si prepara a cantare La Marsigliese, un poliziotto sale sul palcoscenico per annunciare che è proibito tutto quanto non figura sul manifesto: «E lei, interrompe uno degli spettatori, è sul manifesto?».
Il vertice dell’ironia è l’umorismo. Se l’ironia denuncia la falsa serietà nel nome di una serietà superiore, quella del buon senso, della ragione, nell’umorismo è il soggetto stesso ad abbandonare la propria serietà e a deporre ogni importanza.

Si suole raccontare di papa Giovanni XXIII che quando gli chiedevano in quanti lavorassero in Vaticano, rispondeva di scatto: “la metà”.

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