Un tempo lor signori usavano il latinorum per far tacere i villani; oggi che il latino lo sanno ormai in pochi, per lo più gente anziana, lor signori utilizzano l’inglese ottenendo gli stessi risultati dei tempi andati.
Nella concitazione dei giorni che stiamo vivendo, però, a qualcuno delle stanze dei bottoni è sfuggita la parolina “coprifuoco” in luogo del termine inglese, che forse è curfew.
Subito, una opinionista di quelle che appaiono quasi quotidianamente in televisione è saltata su a dire che a lei il termine coprifuoco non piaceva, perché rimanda a scenari di guerra.
Durante la guerra, però, cinema e teatri rimasero ostinatamente aperti. Gorni Kramer ricordò una volta come nei giorni più duri del ’44-’45 i milanesi affollassero ogni sera i teatri di varietà, sicuramente per cercare di dimenticare con qualche risata la giornata di tessere annonarie e sirene d’allarme che avevano appena passato. Oggi, con il lockdown dei mesi scorsi e con l’Italia multicolore di questi giorni, cinema e teatri sono stati immediatamente chiusi in tante regioni.
La parola coprifuoco, è vero, mette in agitazione; è rimbalzata su giornali e notiziari prima che nella Cabina di regia si potesse correre ai ripari. Milioni di italiani la capiscono, anche quelli cui è stata regalata la licenza media perché, magari a diciassette anni, disturbano troppo le lezioni ed anche coloro che la licenza media non ce l’hanno proprio.
Una ricerca dei professori Avveduto e De Rita di trent’anni fa certificava che un italiano su quattro non aveva la licenza elementare; adesso le cose sono cambiate e quegli italiani sono per lo più scomparsi, ma non è che le cose siano migliorate da punto di vista dell’istruzione, considerato il livello delle scuole di un tempo e di quelle di oggi.
Vittorio Sgarbi, che notoriamente le cose non le manda a dire, ha detto un giorno che non si dovrebbe parlare di lockdown, bensì di clausura; se dobbiamo guardare il pelo nell’uovo, la clausura è uno stato scelto liberamente per motivi religiosi. Più che di clausura si dovrebbe parlare di reclusione, considerando che chi nelle regioni rosse “evade” da casa propria senza un giustificato motivo viene sanzionato per un importo variabile tra i quattrocento ed i mille euro, a discrezione dell’agente sanzionante. Forse va meglio al recluso che non rientra da un permesso premio.
C’era una volta il vecchio cappellano di un carcere dell’Italia centrale che chiamava i carcerati “ristretti”, perché non amava il termine reclusi. Si potrebbe dunque dire che milioni di italiani sono stati in stato di restrizione, che è comunque meno impattante di reclusione, anche se si tratta comunque del fatto di non potersi muovere a proprio piacimento.
Ma il termine lockdown va benissimo; è più tranquillizzante, meno feroce, di reclusione, sia il lockdown che da poco abbiamo passato, sia quello, probabilissimo, prossimo venturo.
articolo pubblicato il: 12/11/2020 ultima modifica: 09/12/2020