Da una notizia pubblicata dalla rivista "Apurimac" emerge che in oltre la metà dei conflitti dell'ultimo decennio del secolo scorso sono stati impiegati soldati minori di sedici anni. Nel 1988 i bambini arruolati da eserciti, formazioni paramilitari e bande tribali erano più di trecentomila.
La scelta è dettata da molteplici ragioni: i bambini sono facilmente manipolabili perché non chiedono un compenso, non disertano né si ribellano. Soprattutto nelle guerre di lunga durata infatti un reparto militare può costituire una sorta di rifugio per giovani orfani e privi di risorse. Sono costretti a subire violenze di ogni tipo, facendogli credere che ciò aumenti la loro indole guerriera, e non di rado ad assumere droghe.
La proliferazione di armi leggere è un'altra ragione per arruolare un bambino. Armi come l'AK-47 sovietico o l'M-16 americano sono semplici da smontare e rimontare anche per un bambino di dieci anni e si possono rivelare letali per chiunque. I giovani soldati sono quasi sempre considerati più sacrificabili di un adulto e perciò mandati all'avanscoperta in campi minati o sfruttati come messaggeri o spie. Il numero di vittime dirette delle armi è comunque minore rispetto a quello determinato da fame e malattie, proprio perché il controllo di rifornimenti ha rappresentato sempre una tattica bellica. A ciò si uniscono la carenza di servizi medici, la mancanza di acqua potabile ed l'angoscia per la fuga dal proprio paese. Tutto ciò porta quasi sempre conseguenze gravissime sulla psiche dei piccoli: in Ruanda, dopo il genocidio del '94, i bambini accusavano depressione, incubi e profonda disperazione riguardo al futuro. Un importante fattore di guarigione è rappresentato dall'unione della famiglia e della comunità: staccarsi dai propri affetti è spesso uno dei traumi maggiori di guerra, specialmente per i più piccoli.