Una volta si diceva che prima di parlare bisognasse conoscere l’argomento, poi riflettere ed infine dare corpo alle idee. In questo momento così difficile, invece di tacere e documentarsi si è scatenata la battaglia a su chi la spara più grossa ad ogni ora del giorno e della notte. Mentre quello che i gazzettieri del XIX secolo chiamavano “il popolo bue” è costretto in casa, è per di più obbligato ad ascoltare un fiume inarrestabile di parole, troppo spesso in libertà.
In realtà è in atto una grande recita. Sul proscenio ci sono le mezzetacche della politica che parlano e distolgono l’attenzione dai maneggi dei capi nelle retrovie, per spartirsi tutte le importanti nomine in scadenza e fare piani per umiliare ancora di più quel “popolaccio”, come lo ha definito uno dei due giornalisti più antipatici del progressismo, quella gente modesta che vorrebbe vivere in pace ed allegria, ma che ogni secondo che passa perde qualsiasi potere politico e contrattuale. Un potere che d’altronde non ha nemmeno il Parlamento, esautorato a colpi di decreti del presidente del consiglio. L’opposizione, peraltro, non brilla né per coesione al suo interno, né tantomeno, per chiarezza di obiettivi a breve e a lunga scadenza. Dramma sul dramma, una classe politica non da rimandare a settembre, ma da bocciare con obbligo di ricominciare dall’alfabeto.
La pandemia è stata una manna dal cielo per annullare tutte le libertà, a partire da quella della salute e quella del lavoro, grazie ad un incontro satanico tra forze che non riescono a governare con il consenso elettorale, ma che si sono incollate alle poltrone. La confusione, la macchinosità, le contraddizioni, la difficile, se non impossibile, lettura e comprensione delle decisioni, crea un senso di sgomento, di sconforto, di impotenza che attanaglia più di una crisi respiratoria.
Come se non bastasse, bisogna sorbirsi tutta quella stomachevole retorica sull’inno d’Italia, al cui suono nessuno si alza in piedi da decenni, e sul tricolore, per anni sbeffeggiato proprio da quelle forze che oggi sono al potere; gli applausi ai medici, quando c’è chi propone di chieder loro i danni per le morti dei congiunti, agli infermieri, speso insultati e talvolta malmenati da parenti inferociti, alle forze dell’ordine, costrette a multare pacifici vecchietti che in tempi normali non sarebbero mai stati fermati da una pattuglia. Certi politici e certi giornalisti farebbero meglio a restare in silenzio, ma purtroppo non lo fanno.
Non è più sopportabile il ritardo con cui i tavoli di lavoro e le commissioni che si moltiplicano, discutendo per di più di come non fare la fine di Salvini che andrà a giudizio a luglio, non provvedono a dare risposte a tutti quei cittadini che non possono lavorare e che non possono neppure andare a fare la spesa perché non hanno soldi. I supermercati sono sempre più vuoti, perché se in una famiglia stanno tutti a casa e non ci sono redditi garantiti, si finisce per non mangiare. Oltre al danno, la beffa di sentire ad ogni piè sospinto che bisogna accogliere chi arriva illegalmente, che è doveroso regolarizzare centinaia di migliaia di stranieri, che servono emigranti per i lavori nei campi, e cosi via pontificando. Però non si capisce perché coloro che godono del reddito di cittadinanza non possano lavorare.
In compenso le chiacchiere non mancano, alcune anche oltre il ridicolo. In occasione del terzo o quarto modello di autocertificazione da stampare per poter circolare senza essere multati, Laura Boldrini si è lamentata pubblicamente perché il modello non prevede la doppia dizione maschile e femminile, così da discriminare le donne. L’ex presidente della Camera, dopo troppo tempo che era uscita dalla ribalta, ha così ottenuto l’onore di essere citata dai più importanti telegiornali, facendo sghignazzare qualcuno e arrabbiare troppe donne che non sanno più che inventarsi per combinare il pranzo con la cena.
Quanta miseria umana è emersa tra chi conta in questo periodo di quarantena e quanto grande la consapevolezza della gente di non potersi fidare dei propri governanti, dilettanti in quanto a competenze, però abilissimi nella gestione del personale tornaconto, sia in patria che all’estero. Senza voler scomodare Leopardi, il nostro si potrebbe definire Stato “matrigna”. Il dramma di questo povero paese nostro è l’incapacità di ristudiare la storia della sua formazione e di affrancarsi una volta per tutte dalla ingombrante eredità dei compromessi fra Chiesa e Stato che ha generato ideologie antitetiche fra loro ma saldamente alleate nel possesso del potere.
articolo pubblicato il: 17/04/2020 ultima modifica: 27/04/2020