A dieci anni dalla sua promulgazione, la legge 164/92 è ancora priva dei decreti ministeriali di applicazione. Si tratta della legge di regolamentazione della Denominazione di Origine Controllata dei vini, costantemente aggirata da potenti produttori che vedono nella DOC una limitazione al trasferimento di masse di vini e di vitigni da una zona di produzione all'altra per assecondare il mercato.
È indubbio che i grandi produttori si sentano limitati dal territorio e che vedano come il fumo negli occhi un'eventuale applicazione rigorosa della DOC, con l'istituzione di una piramide che preveda la demarcazione rigorosa tra zone, sottozone, microzone, singole vigne.
Ma i piccoli produttori obiettano che la DOC non è obbligatoria e che è giusta che venga riservata a chi produce veramente in una determinata zona. Certo, nelle aste internazionali sono i vini a Denominazione d'Origine Controllata a spuntare i prezzi più alti, con grande scorno di famose marche che per poter mantenere un volume di vendite in linea con la pubblicità devono necessariamente operare su grandi quantitativi di uve provenienti da zone diverse e non sempre riescono a "contrabbandare" come DOC ciò che originario non può essere.
Le esportazioni di vino italiano sono al primo posto nel mondo e ormai è stata del tutto superata la grave crisi che nacque sull'onda dello scandalo del metanolo (pochi criminali ebbero il potere di gettare discredito su di un'intera nazione). Ciò non toglie che ci sia chi fa il furbo, dichiarando DOC vini che non possono materialmente esserlo, stante una produzione in continuo decremento in superfici dedicate sempre più esigue e il continuo aumento delle bottiglie "garantite".
Se la legge non è perfetta la si può modificare, senza dubbio, ma la sua applicazione deve essere seria, per onestà verso il consumatore e per evitare prevedibili crisi d'immagine all'estero.