torna a "LaFolla.it" torna alla home page dell'archivio contattaci
cerca nell'archivio




ricerca avanzata


Google



contattaci

ingrandisci o rimpicciolisci il carattere del testo

speciale 500 anni della disfida di Barletta
la costruzione del mito
di Luigi Dicuonzo

Quel fatto d'armi, tutto cinquecentesco, che sotto il nome di Disfida di Barletta, ha contribuito notevolmente alla diffusione del nome della città nei libri di Storia ad uso e consumo di tutti i gradi e i livelli di studio della Scuola nazionale, si inscrive nel quadro delle lotte tra Spagna e Francia che, sul finire del quindicesimo e l'inizio del sedicesimo secolo, conquistarono e si divisero l'Italia meridionale. Come i mille e mille altri episodi di quotidianità bellicosa, di conflittualità e di banalità legate ai brividi dei certami cavallereschi dell'epoca, anche quell'episodio sarebbe rimasto lugubremente anonimo se, il Marchese Massimo Taparelli D'azeglio da Torino, non avesse avuto smania, per così dire, di interessarsi, prima di pittura e poi di letteratura. Oh dio! Il Marchese, scavezzacollo in gioventù, uomo d'ordine nell'età matura, era un tipo eclettico, ingegnoso, creativo, spiritoso, sintetico e bruciante, finanche, nella concettualità. "L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani", disse, intorno agli anni sessanta, per non esser da meno di Camillo Benso, Conte di Cavour, quando sentenziò "l'Italia è fatta, tutto è salvo!". A vivere le emozioni di un allargamento di orizzonte nazionale, il Marchese, a differenza di altri suoi compatrioti piemontesi che disdegnavano uscire dai confini del proprio Stato a meno che non si trattasse della Francia, si era preparato soggiornando a Roma, dal 1814 al 1830, in qualità di aiutante del padre, Cesare Taparelli D'Azeglio, addetto alla legazione di Sardegna. Ne trasse profitto per acculturarsi nella pittura prediligendo le tecniche espressive dei pittori en plain aire, radicando il suo gusto per il paesaggio e le rappresentazioni a tutto spazio, possibilmente a contenuto storico. Nel 1829, fedele ai suoi propositi espressi ne I miei ricordi, ("...mi misi in animo di fare qualche opera grande, nel senso della dimensione si intende, e di genere un po' nuovo. La scuola olandese non popolava i suoi quadri che di pastori e di bestiami. Io chiamai in mio soccorso una colonia di paladini e di donzelle erranti. In letteratura non era una novità, nella pittura di paese lo era."), produsse la sua opera pittorica, forse più famosa, che è appunto La Disfida di Barletta. Scopertosi, poi, anche capace narratore di vicende eroiche che potessero richiamare le tradizioni guerriere, trovò nel romanzo storico, il giusto filone, certamente stimolato dal sodale Alessandro Manzoni, dal quale aveva ottenuto consenso a sposare la figlia Giulia, per realizzare quella finalità pedagogico - didattica di ogni opera d'arte, canone fondamentale di rigoroso e assoluto rispetto per il Romanticismo tutto intero. E, così, dalla pittura passò alla scrittura affidando alla sua prosa, sia detto per inciso, non sempre ossequiosa della correttezza linguistica, una funzione argomentativo - esplicativa del raffigurato che resta sempre speculare ai suoi romanzi. Nel '66, poco prima di morire, a mo' di consegna di una preziosa eredità degli ideali risorgimentali ai posteri, ebbe a dire: " Da un pezzo mi fò un'idea limpida delle successive tappe del nostro movimento, che produrrà alla fine una nazione quando due generazioni almeno abbian fatto letame per ingrassare il terreno. Non è forse dal letame che nasce il bel grano?"

Dal 1829, anno in cui dipinse il celebre quadro della Disfida di Barletta, e dal 1833, anno della pubblicazione dell'Ettore Fieramosca, certamente, diverse generazioni si nutrirono delle sue parole, se non per produrre una nazione, almeno per unificare politicamente quel che era già, geograficamente, un'unità territoriale. E, dopo? Cosa n'è stato della fortuna iniziale, di quel romanzo? Ha continuato ad attrarre lettori per gli ideali d'italianità che, un po' artificiosamente, si rintracciavano nelle gesta dei cavalieri venuti dai più disparati siti geografici della penisola? Una volta fatta l'Italia, si poteva ancora additare quell'italianità, riscontrata, per così dire, in nuce, come cemento di eroismo nei tredici cavalieri della Disfida di Barletta, nel romanzo, sia pure con scarso scrupolo storico, a nuovo o rinnovato valore da celebrare? Non è più corretto affermare che, probabilmente, il romanzo fosse avidamente letto per via della finzione, tutta letteraria, fortemente accattivante del tragico amore tra Ettore Fieramosca e Ginevra? Suvvia, diamo retta, al Marchese. Non è cosa facile fare una nazione! Se si sbagliava, si sbagliava solo sulla giusta quantità necessaria di... quella materia prima che occorre per fa nascere il bel grano. Più che contribuire alla crescita di un certo fervore patriottico attento ad individuare nei fatti storici un valido valore simbolico, il romanzo del D'Azeglio, ebbe i suoi momenti felici grazie "all'abile alternanza di elementi patetici e grotteschi, tragici e moderatamente comici, infine per il disegno vivace di alcune figure minori, come quella simpatica ed estrosa di Fanfulla da Lodi". Non si fa torto al Marchese, credetemi, né tanto meno al comandante Fieramosca e ai suoi valorosi cavalieri, suggerendo questa chiave di lettura che potrebbe, a prima vista, sembrare riduttiva. Né gli episodi della storia, grandi, famosi o piccoli e insignificanti che siano, né i romanzi storici in sé e per sé, possono dare vita alle nazioni. Fu profetico, almeno in vecchiaia o poco prima di passare a miglior vita, il Marchese Massimo Taparelli D'Azeglio. Le nazioni sono grano o fiori che abbisognano di cure continue, attente, amorose e di...letame. Il culto per il passato, spesso, le avvelena e le inaridisce. La memoria storica, individuale, pubblica e comunitaria, le rinvigorisce, le protegge e le ripara dai danni irreparabili che possono arrecare i miti acritici, quando, quella memoria, nella sua variegata gradualità, sa sottrarsi alla banalità retorica della ricorrenza o, peggio ancora, della dispendiosa e non sempre utile commemorazione. "Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche" è il monito del profeta Isaia, quasi a voler esorcizzare il rischio che, la memoria, per esser fortemente abbarbicata alla pura e semplice celebrazione dei fasti, corra il pericolo di chiudere occhi, cuore ed orecchio all'eco bruciante di...nefasti che bruciano ancora sulla nostra pelle. A sessant'anni dall'occupazione tedesca di questa nostra città e dall'eccidio di civili e militari (12 Settembre 1943!), non vorremmo che il nostro Settembre 2003 possa fare difetto di memoria. Sacrosanta, doverosa, improcrastinabile.

Commenta Manda quest'articolo ad un amico Versione
stampabile
Torna a LaFolla.it