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cinema
"il cacciatore di aquiloni"
di Luigi Delli Stanghi

Per chi ha amato il romanzo di Khaled Hosseini potrebbe accadere che questo film da cui è tratto sia per qualche verso una leggerissima delusione. Ma ciò è normale, in primo luogo perché il medium è del tutto diverso e, dove la pagina indugia, la pellicola deve necessariamente sintetizzare, poi perché comunque entra sempre in gioco la particolare sensibilità del regista, il quale di un libro naturalmente privilegia gli aspetti che di più lo hanno colpito, anche nel caso di grandissimi traspositori come Visconti.

Chi il libro non lo ha letto troverà il film bellissimo. La storia poetica di una grande amicizia tra due bambini di etnie diverse, l'uno, il protagonista, appartenente a quella dominante dei Pashtun, l'altro a quella storicamente inferiore degli Hazara, un'amicizia destinata ad interrompersi bruscamente per la vigliaccheria del primo, ma che era destinata comunque ad interrompersi a causa dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Un atto di vigliaccheria che peserà a lungo sul bambino divenuto adulto, anche nel ricordo del coraggio del proprio padre di fronte alla prepotenza russa.

Il film, come d'altronde il libro, è incentrato sulle gare di aquiloni, non a caso proibite dai Talebani, cui si dedicavano grandi e piccoli a Kabul e che rivivono negli Stati Uniti dei profughi; vince chi riesce con la propria a tagliare la corda di un altro e ad impossessarsi dell'aquilone caduto.

Ma il metamessaggio del film è dato dalla differenza della Kabul pre-invasione sovietica e quella dei Talebani. Il modo di vestire e di vivere degli afgani benestanti, del tutto simili a quelli degli occidentali, costituiva un mondo che non è più tornato, nonostante una guerra che ha cacciato i Talebani dal potere. Certi costumi, non solo nel vestiario, sono rimasti anche con i vincitori.

Ci piace a questo proposito ricordare una fotografia che non ha nulla a vedere con il film, una foto riprodotta in un numero di qualche anno fa nel Magazine del Corriere della Sera: un gruppo di ragazze afgane del 1971, tutte con indosso quella minigonna lanciata qualche anno prima da Mary Quant, che, non solo a Kabul, era simbolo di libertà. Una libertà che laggiù difficilmente potrà tornare nella mente delle persone, nonostante la presenza delle truppe occidentali.

Possiamo tranquillamente parlare, senza reticenze, di autentico capolavoro.

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