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politica estera
la spia della benzina
di Alessandro Ceravolo

Le quotazioni oscillano stabilmente tra i 90 e i 100 dollari al barile. I paesi produttori e gli esperti del mercato continuano a gettare acqua sul fuoco sostenendo che la situazione è sotto controllo. La domanda di acquisto, nonostante la recessione economica, rimane altissima e il prezzo, aggravato da una pesante inflazione, ne è la naturale conseguenza. Nessun accenno, però, ad eventuali aumenti di produzione in grado, secondo le leggi di mercato, di tamponare l'aumento del costo: chi possiede il petrolio se lo tiene ben stretto e, tramite adeguati accordi, cerca di trarre il massimo profitto da questa condizione di monopolio rischiando così di mandare definitivamente a picco il già precario quadro economico mondiale. La situazione è sicuramente sotto controllo...ma sotto il controllo di chi?

Lo scorso 28 gennaio il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha posto un ultimatum di 45 giorni alle compagnie petrolifere operanti nel suo paese obbligandole a modificare i contratti con lo stato (nell'area OPEC fin dal '73) al fine di ridurre drasticamente i loro profitti. Il 99% dei proventi dovrà andare nelle casse dell'erario mentre solamente l'1% rimarrà alle imprese (il precedente accordo prevedeva una spartizione paritaria dei guadagni). La linea economica del leader andino (molto vicina a quella del venezuelano Hugo Chávez) mira a saldare i conti con le aziende straniere - la statunitense City Oriente, la cinese Andes Petroleum, la brasiliana Petrobras, la spagnola Repsol e la francese Perenco - pagando loro i costi delle infrastrutture e obbligandole ad abbandonare i giacimenti per poterli poi mettere nelle mani dell'impresa statale Petroecuador.

Nella stessa giornata il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, parlando nella città sudorientale di Bushehr, vicino al sito del previsto "primo" impianto nucleare iraniano (costruito grazie all'aiuto della Russia), ha predetto che tra non più di 12 mesi il suo paese potrà usufruire dell'energia atomica. Sfidando la pressione internazionale (l'occidente teme che vengano prodotte armi nucleari), l'Iran (altro membro dell'OPEC e quarto produttore mondiale di greggio) vuole fermamente costruire una "pacifica" rete di centrali nucleari per poter soddisfare la domanda interna di elettricità e preservare i suoi giacimenti di petrolio e gas naturale per la ben più proficua esportazione. La situazione potrebbe avere evoluzioni preoccupanti ed imprevedibili data l'inaffidabilità del presidente iraniano ma, senza alcun dubbio, il piano economico di Ahmadinejad ha delle fondamenta: attualmente il 40% del petrolio iraniano viene utilizzato per uso interno e slegare il paese da questa dipendenza porterebbe ad un aumento vertiginoso dei profitti e delle esportazioni.

"Il mercato è ben approvvigionato e, a differenza dello scorso dicembre, non c'è alcuna ragione che giustifichi un intervento o un aumento della produzione". Questa dichiarazione rilasciata congiuntamente dai ministri dell'energia e del petrolio riassume le intenzioni espresse dal vertice dell'OPEC riunitosi a Vienna il 30 gennaio scorso; i 92 dollari al barile non preoccupano i produttori che, al contrario, considerando la recessione americana e il rallentamento che l'economia globale subirà nei prossimi mesi, prevedono un calo della domanda e ipotizzano un conseguente ulteriore taglio della produzione in corrispondenza del 5 marzo, data del prossimo vertice. Il malcontento per tali decisioni è evidente e il senso di impotenza di fronte a dinamiche economico-politiche così lontane dalla nostra quotidianità è ben sintetizzato dalla reazione di Antonio Catricalà, presidente della Autorità per la concorrenza e il mercato: "L'OPEC non può essere sanzionato da nessuna autorità antitrust, nonostante l'evidente violazione delle regole più elementari della libera concorrenza, perché è un'intesa tra stati e non tra imprese. Comunque continuo a chiedermi - ha proseguito - come sia possibile che il petrolio, estratto ad un costo di 5 dollari per barile, salga a 100 dollari, considerando che un barile, equivalente a 170 litri, per essere raffinato richiede un costo aggiuntivo del 20%. Dunque tutto quello che arriva in più è profitto e sovrapprofitto".

Gli analisti possono continuare a sostenere che è colpa dell'inflazione, della recessione globale o semplicemente delle leggi del mercato; sfortunatamente la spia della benzina non capisce molto di economia, fiuta soltanto la pericolosità della situazione e ci segnala che qualcosa non quadra rimanendo costantemente accesa.

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