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ragioni e non ragioni
di Antonio R. Rubio Plo

Il 17 ottobre del 1945, un bambino argentino, Ernesto Laclau, vide passare da un balcone della sua casa di Buenos Aires una marea umana che preparava il terreno al suo caudillo, Juan Domingo Peron. Erano i prolegomeni del peronismo che sarebbe giunto in pochi mesi al potere e che avrebbe conosciuto diverse metamofosi fino ad i nostri giorni: caudillismo, nazionalismo di sinistra, populismo e finanche neoliberalismo... In ogni caso quella marea turbolenta del 1945 - e coloro che la guidavano- pretendevano di assumere in esclusiva il concetto di "popolo". Laclau si sentì così impressionato davanti a quella visione che, quando anni dopo si convertì in sociologo e professore dell'universita di Essex, si era già lasciato affascinare dal populismo. Negli ultimi tempi ha voluto esserne il teorizzatore, grazie ad un libro intitolato "La ragione populista". Non è, naturalmente, una critica della ragione populista, bensì un'oscura esposizione delle sue non ragioni.

Laclau non è di lettura accessibile. Non è nemmeno estraneo a chi si definisce postmarxista e postmoderno, a chi ha attinto nei classici del neolinguaggio e della destrutturazione: Foucault, Derrida, Lacan... Ad ogni modo, i politici populisti non sono soliti essere gente molto istruita e nonostante possano aver bisogno di un consigliere aulico dello stile di Laclau, il ruolo di consigliere è mal impiegato. Ciò che cerca il lider populista è qualcuno che applauda e giustifichi le sue iniziative, qualcosa come il Voltaire di Federico II e di Caterina di Russia, ma non desidera assolutamente una coscienza critica. Se c'è un politico amante dell'unanimità all'interno delle proprie file, questo è il populista. Non c'è molta differenza con il "centralismo democratico" che praticava il partito di Lenin... Il populista esige fede, e fede profonda, perché il populismo in fondo non cessa di essere una religione, non quella dell'amore ma quella del timore. Non concepisce l'efficenza politica e sociale senza aspirare a risvegliare timori tra coloro che ha previamente etichettato come "cattivi". Dopotutto lui è l'incarnazione del partito dei "buoni" e tutto ciò che è antipopulista è per definizione antidemocratico. Non ha fiducia nel popolo, nella democrazia... Sia come sia, il populismo si presenta come una forma di democrazia, con pretese di essere la più perfetta, cosa che ci ricorda la distinzione fatta dai comunisti del XX secolo tra democrazie borghesi e democrazie popolari, trà libertà formali e libertà reali. Il pericolo rappresentato dal populista del nostro tempo è che non rompe con la democrazia rappresentativa come i populisti del fascismo o del comunismo, ma la converte in uno strumento ad uso plebescitario; qualsiasi elezione a qualsiasi livello serve per legittimare il lider, molto più oltre del contenuto dei programmi elettorali. In questa democrazia non esiste alternativa reale, nonostante che esista un'opposizione. Al contrario, l'alternativa suona perfino immorale: come possono i "cattivi" rimpiazzare i "buoni"? Il populista chiude con il concetto di politica intesa come l'amministrazione delle cose, nell'accezione di Saint Simon. Dà più importanza alle idee che alle persone, nonostante affermi che governa per il popolo. Questo errore ha più di due secoli: rimonta all'epoca della Rivoluzione Francese, la madre di tutti i nazionalismi, e lo avvertì con grande lucidità quel gran filosofo italiano chiamato Antonio Rosmini: si rimpiazzò l'essere personale con l'essere collettivo o quello individuale. Le conseguenze le stiamo vivendo ancora oggi.

Il populismo cammina sul sentiero della vaghezza e dell'indefinitezza. Non andiamo a cercare in esso concetti chiari. Tali concetti non sono utili quando si cerca un capro espiatorio, un nemico. Se cominciamo a personalizzare l'altro, con le sue virtù e i suoi difetti, non troveremo un nemico ma qualcuno con molte più affinità di quante potevemo supporre. Non abbiamo più l'oggetto - che secondo l'ottica populista aveva smesso di essere persona - e le masse non possono scaricare il proprio "giusto" furore. Da qui l'importanza della dittatura del linguaggio, delle qualifiche che il potere dispensa a discrezione. Conseguentemente, mai il populismo porterà ad una democrazia di cittadini, nonostante il lider populista si riempia di appelli alla cittadinanza. Dopotutto, il mero fatto di essere cittadino - tutti lo erano - non rappresentò mai una garanzia nei confronti del carcere o della ghigliottina durante la Rivoluzione Francese.

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