"Ha parlato male di Garibaldi". La battuta del comico milanese Edoardo Ferravilla (1846-1915) è divenuta proverbiale e dimostra la venerazione di generazioni di italiani per il biondo eroe nizzardo.
Oggi il mito non è più presenza viva, come lo era quando ancora nelle scuole elementari e medie l'aneddotica del Risorgimento era la base del terzo anno di storia. Poi tra gli insegnanti, per un'equivoca interpretazione del metodo di Braudel, che faceva ricerca su piccoli eventi per comprendere meglio il perché dei grandi avvenimenti, è giunta la moda della microstoria e il Risorgimento ha lasciato il passo alle ricerche sulle abitudini culinarie dei nonni o sui costumi tipici delle bisnonne .
Se il bicentenario della nascita di Garibaldi (4 luglio 1807) fosse caduto cinquant'anni fa si sarebbe assistito ad un delirio di commemorazioni; basti ricordare le finestre d'Italia imbandierate nel marzo del 1961, anniversario della proclamazione del Regno. Tempi lontani; già nel 1982, anniversario della morte, le celebrazioni furono più di facciata che partecipazione di popolo.
Il mito di Garibaldi, in un'epoca di rivisitazioni, revisioni e addirittura negazionismi, rimane comunque abbastanza intatto, anche se offuscato dal tempo. L'increscioso episodio di Bronte, grazie anche ad un film di successo, è stato completamente scaricato sulle spalle di Nino Bixio, come se il luogotenente del Generale fosse andato di propria iniziativa a domare i contadini che avevano interpretato l'arrivo delle camicie rosse come rivoluzione sociale.
Ma, al di là delle frasi storiche, "Nino, qui si fa l'Italia o si muore", fu grazie a Bixio se a Calatafimi l'epopea dei Mille non si concluse come le avventure dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane, e precedentemente, se vogliamo, quella di Gioacchino Murat.
Oggi si mette volentieri in evidenza ciò che a lungo si era taciuto, cioè che il Brigantaggio fu in realtà guerriglia contro lo stato sabaudo accentratore e abolitore di diritti secolari, come quello di legnatico, che permettevano la sopravvivenza delle comunità bracciantili. Oggi si ricorda come ai dodici anni di Risorgimento, preparati, però, dalle idee di libertà giunte con le baionette bonapartiste, fossero seguiti gli anni della tassa sul macinato, che contribuì in modo non secondario all'esodo di tredici milioni di italiani verso le Americhe, una cifra esorbitante non solo per la ridotta popolazione della Penisola del tempo.
Lasciando da parte i facili revisionismi, bisogna chiedersi che ne sarebbe stato dell'Italia senza il suo Risorgimento e senza Garibaldi. Probabilmente l'Italia sarebbe ancora "Un'espressione geografica", per usare le parole del Metternich, più o meno dell'importanza che possono avere le repubbiche sorte dalla dissoluzione della Iugoslavia nel contesto europeo.
Il Risorgimento non può e non deve essere messo in discussione, né dai meridionalisti, ché comunque non è che con i Borboni il Meridione avrebbe avuto un grande avvenire, né da quattro tipi in camicia verde che ignorano non solo che il miracolo industriale del Nord dell'Italia fu possibile grazie all'abolizione di dazi e tasse d'importazione, ma anche che la migliore gioventù che per l'Italia e Garibaldi perse la vita era in larga parte composta di lombardi in camicia rossa.
Non resta che sperare che l'occasione del bicentenario aiuti a riportare in auge il ricordo del Nizzardo, anche se è una speranza abbastanza tenue. Tutto, probabilmente, si risolverà in qualche articolo di giornale, in qualche commemorazione, nella gita a Caprera del potente di turno, ad imitazione di quella di Craxi venticinque anni fa. Sarebbe bene, invece che, al di là dell'anniversario, Garibaldi ed il Risorgimento tornassero ad essere, come sono stati per decenni, il sostrato ed il collante del nostro sentirci italiani.