"Mar del Plata": storia vera degli "angeli del rugby"
che osarono sfidare la dittatura argentina negli anni 70
Claudio Casadio nello spettacolo scritto da Claudio Fava
e diretto da Giuseppe Marini
di Vita, Bologna, 5 febbraio 2017
Erano ragazzi che amavano il rugby e che furono decimati dalla dittatura: la storia vera della squadra La Plata Rugby, nell'Argentina degli anni 70, rivive in uno spettacolo potente, dalla profonda ispirazione civile e dall'emozionante potenza spettacolare: "Mar del Plata", scritto da Claudio Fava e diretto da Giuseppe Marini, sarà in scena a Teatri di Vita (via Emilia Ponente 485, Bologna; tel. 051.566330; www.teatridivita.it), domenica 5 febbraio, ore 21. In scena, Claudio Casadio, Giovanni Anzaldo, Fabio Bussotti, Andrea Paolotti, Tito Vittori, e ancora Edoardo Frullini, Fiorenzo Lo Presti, Giorgia Palmucci, Alessandro Patregnani, Guglielmo Poggi. Lo spettacolo è coprodotto da Accademia Perduta / Romagna Teatri e da Società per Attori, con il patrocinio dell'Ambasciata Argentina in Italia e della Federazione Italiana Rugby, in collaborazione con Amnesty International - sezione italiana.
Dopo Bologna, "Mar del Plata" sarà al Teatro Masini di Faenza (6-8 febbraio), al Teatro Diego Fabbri di Forlì (9-12 febbraio) e al Teatro Alighieri di Ravenna (21-22 febbraio).
"Mar del Plata" è un appassionante testo teatrale di Claudio Fava che racconta una storia vera, quella della squadra La Plata Rugby, un gruppo di ragazzi che alla fine degli anni '70, nell'Argentina della dittatura dei colonnelli, venne decimato dalla ferocia dei militari di Videla, ma che rimase in campo a giocare fino alla fine del campionato. Raul Barandiaran, l'unico sopravvissuto a quella tragedia, ancora oggi è il testimone vivente della squadra che decise di correre contro la violenza e l'oppressione, tenendo stretta al petto la palla ovale, a perenne testimonianza di questo nobile sport nel quale "una volta sceso in campo non puoi fuggire o nasconderti, devi batterti con coraggio, lealtà e altruismo".
"La prima volta che andai in Argentina la memoria di molte cose accadute era ancora intatta. Cose accadute laggiù, a Buenos Aires, dove la storia si era fermata su quell'elenco interminabile di nomi cancellati dalla vita e dal lutto, desaparecidos, ammazzati senza nemmeno il diritto a portarsi la propria morte addosso. Ma anche cose accadute quaggiù, in Italia, dove un'altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri s'erano portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre.
Mi era sembrato un viaggio necessario: imparare che nessun luogo è il centro del mondo. Si moriva in Argentina come in Sicilia perché una banda di carogne regolava in questo modo i propri conti con i dissidenti. Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile. A Buenos Aires come a Catania. Negli anni ho imparato a raccontare quei morti con le parole dei vivi, le madri di Plaza de Mayo, le vedove di via d'Amelio...
Ho provato a immaginare com'erano vissuti e perché avevano fatto quello che scelsero di fare. Non serviva a consolarsi ma a capire che dietro ogni violenza, a Buenos Aires come a Palermo, non c'era mai fatalità ma un pensiero malato, l'osceno sentimento del potere, l'avidità, il desiderio di impunità, la menzogna... In questo, Jorge Rafael Videla e Nitto Santapaola si rassomigliano. E si rassomigliano anche i loro morti. I ragazzi di Mar del Plata mi sono venuti incontro così, quasi per caso. Tutti morti, un solo sopravvissuto: Raul. Non aveva mai raccontato la sua storia. Nemmeno quando il regime dei militari era crollato come un castello di carte. Essere rimasti vivi, sopravvissuti al male, è sempre un peso insopportabile, il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un'ulcera. Succedeva agli scampati di Auschwitz, successe anche ai superstiti della mattanza argentina. Ho provato a immaginare i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire. Ho cercato di riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro: i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rugbisti di Mar del Plata che rinunciano a trovare rifugio in Francia pur di giocarsi fino all'ultima partita il loro campionato... II nome di Raul, il sopravvissuto, l'ho conservato. Gli altri, carnefici e vittime, li ho ribattezzati: volevo che ciascuno di loro portasse in questo teatro qualcosa in più della propria storia, qualcosa in più della propria morte. Perché alla fine poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani. Importa come vissero. E come seppero dire di no".
(Claudio Fava)
TEATRI DI VITA
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articolo pubblicato il: 28/01/2017