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politica estera
Srebrenica ‘95
di Alessandro Ceravolo

Oltre cinquemila bosniaci di fede musulmana in rivolta a Sarajevo davanti alla sede del governo; un nutrito gruppo di familiari delle vittime radunato sotto la sede della Corte internazionale di giustizia de L'Aja; una sentenza senza precedenti che avrebbe dovuto far definitivamente luce su una delle pagine più tragiche del nostro secolo; ancora una volta la giustizia e la storia devono fare i conti con le necessità della politica internazionale. A Srebrenica, dodici anni fa, qualcuno si è macchiato di un orrendo crimine. Per la prima volta dopo la convenzione firmata nel '48 in seguito all'olocausto nazista, l'alto tribunale dell'Onu ha dovuto rispolverare la parola genocidio.

Dopo numerosi giorni di offensiva, le truppe serbo-bosniache, fide alleate del governo di Belgrado, guidate da Radovav Karadzic e dal generale Ratko Mladic, riuscirono a penetrare nella zona protetta di Srebrenica. I 600 caschi blu dell'Onu, appartenenti alla compagnia olandese Dutchbat, per motivazioni mai ufficialmente chiarite, rinunciarono ad intervenire, limitandosi a chiamare rinforzi. Uno dei momenti più scuri nella storia delle Nazioni Unite: il sostegno richiesto non riuscì mai ad arrivare. Incomprensioni, intoppi nelle decisioni e ritardi logistici lasciarono il campo libero alle truppe serbo-bosniache e alla loro pulizia etnica. Oltre 8.000 musulmani (ma la cifra reale potrebbe essere di gran lunga superiore) furono massacrati sotto gli occhi colpevolmente inermi dei caschi blu. Le giornate successive all'11 luglio del '95 hanno rappresentato il momento più doloroso dell'intero conflitto balcanico di fine Novecento e, appena terminata la guerra, è emerso in maniera evidente il bisogno di aprire un processo che potesse determinarne le responsabilità.

Lo scorso 26 febbraio era attesa la decisione che avrebbe dovuto mettere la parola fine alle controversie, rispondendo all'accusa di genocidio mossa dal governo bosniaco nei confronti della Serbia. Tutti gli occhi erano puntati sul presidente della Corte internazionale di giustizia, Rosalyn Higgins, la quale sapeva di dover emettere una sentenza complessa che avrebbe sicuramente influito sul futuro equilibrio balcanico. La morte (o forse il suicidio) in carcere dell'ex-presidente Milosevic, la poca collaborazione di Karadzic (consegnatosi alle Nazioni Unite nel 2005 per volontà della moglie), ma soprattutto la latitanza di Mladic e di molte alte cariche militari e politiche, ha reso assai complessa l'analisi dei fatti e l'attribuzione delle responsabilità, producendo una sentenza finale che ha, inevitabilmente, scatenato numerose critiche.

"La Corte è arrivata alla conclusione che gli atti commessi a Srebrenica rientrano negli articoli [...] della convenzione riguardanti il genocidio; Ciò nonostante lo stato serbo, pur essendosi macchiato di altri crimini efferati (uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri) e pur avendo fornito appoggio militare e finanziario ai serbi di Bosnia, non è direttamente responsabile del genocidio". Queste le parole pronunciate dalla Higgins: non essendo stato messo a conoscenza delle proprie intenzioni dalle truppe di Mladic, lo stato serbo è stato così scagionato dalle accuse bosniache.

La sentenza, quantomeno controversa, non costringe quindi Belgrado a pagare alcun indennizzo; il risarcimento, in caso fosse stata accertata la responsabilità serba del genocidio, sarebbe ammontato ad una cifra superiore ai dieci milioni di dollari, probabilmente troppi per una nazione che aspira ad entrare nell'Europa che conta e che recentemente ha dovuto affrontare la problematica indipendenza del Montenegro. Il groviglio balcanico si sta rapidamente trasformando e il compito della Serbia è quello di indicare la rotta ai paesi limitrofi; una condanna troppo pesante la avrebbe privata del suo ruolo di trascinatrice, danneggiando anche la stabilità delle economie confinanti. Certamente queste argomentazioni non possono bastare alla comunità musulmana, aspramente indignata per una decisione, considerata il frutto di motivazioni esclusivamente politiche, che non rende giustizia alle migliaia di vittime; solo l'evoluzione futura delle vicende che avverranno oltre l'adriatico potrà dirci se la Higgins ha avuto ragione.

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