Sembrerà strano ai giovani che sono cresciuti vedendo i continui aumenti del prezzo del petrolio, sopportando i blocchi della circolazione a causa dell'inquinamento, sentendo sempre parlare di conti pubblici in rosso, di effetto serra, di terrorismo internazionale, sembrerà proprio strano ma ci furono anni in cui gli italiani erano felici.
Erano gli anni Sessanta. L'Italia era uscita dal decennio precedente liberandosi completamente della pesante eredità della guerra, se non per qualche palazzo bombardato e non ancora ricostruito che faceva triste mostra di sè qua e là nelle città più colpite. Trieste era tornata ormai da tempo all'Italia e l'emigrazione si era ridotta a quella stagionale in altri Paesi europei, essendosi quasi completamente esaurito il filone di chi, nel Dopoguerra, abbandonava la propria casa per le Americhe e l'Australia (ma molti reduci erano finiti tra i képis blancs di Dien Bien Phu o della Casbah di Algeri; la leva legionaria del '46 era quasi completamente composta di italiani e di tedeschi).
I primissimi anni Sessanta furono quelli della motorizzazione di massa, dell'Autostrada del Sole, delle abbuffate domenicali "fuori porta", della Scuola Media per tutti. C'era stata anche la cosiddetta Congiuntura in economia, presto superata da un imponente programma di opere pubbliche. Tutto era diverso. La gente si liberava dei vecchi mobili del nonno (che oggi deve ricomprare a prezzi astronomici) e il salutismo era inteso come mangiare (finalmente) a pi non posso. Mina cantava che un uomo deve "sapere di fumo" e per milioni di italiani, non pi costretti a seguire la televisione al bar ma comodamente seduti a casa propria, il problema maggiore era sapere chi avrebbe vinto Canzonissima (vinceva spesso Morandi perché i comunisti dovevano votare per lui, come lo stesso cantante ammise anni dopo).
Poi arrivarono le 16.37 del 12 dicembre 1969 e tutto cambiò.
Iniziarono i cosiddetti "anni di piombo", dal titolo del fortunato film di Margarethe von Trotta, anni di "dietrologia" (neologismo coniato allora), di dietrologia della dietrologia e, come direbbe Achille Campanile, di dietrologia della dietrologia della dietrologia. Ancora oggi, nonostante anni di processi, di appelli e di riaperture delle indagini, la mano che posò la borsa esplosiva nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, non è stata individuata con certezza assoluta. Pista anarchica, pista nera, pista di Stato, pista americana, pista massonica, ci è stata risparmiata solo la pista francescana, grazie al cielo, ma, per il resto, è stato detto, scritto ed indagato di tutto.
Sarebbe troppo lungo fare l'elenco di quello che accadeva, ogni giorno, in quegli anni. Dopo i sedici di Piazza Fontana, troppi morti sarebbero seguiti, uccisi da una parte o dall'altra, troppi giovani sarebbero stati "sprangati", da una parte o dall'altra.
Quello che alla fine ha caratterizzato gli anni post piazza Fontana è stato il clima pesante che si venne a creare. I telegiornali che "aprivano" ogni giorno con veri e propri bollettini di guerra, i quotidiani ed i settimanali pieni quasi solo di notizie di colpi di scena, di inchieste spesso a senso unico, di interviste ai giudici, di ricostruzioni "definitive", che definitive non erano già il giorno dopo, di fondi di commentatori, quasi sempre di parte.
Sul terrorismo e sullo stragismo si fondarono carriere giornalistiche e fortune di editori. Ma per altri luoghi e per altre situazioni Helder Cámara, vescovo di Recife, aveva ammonito coloro "che fanno del sangue dei propri fratelli inchiostro per tipografie". E di inchiostro fazioso, da una parte o dall'altra, in quegli anni se ne produsse tantissimo.
Gli anni Settanta furono, indubbiamente, anni di piombo per le famiglie delle vittime e per i genitori dei giovani che finivano in galera. Furono, però anche "anni di carta", anni di chiacchiere nei salotti "impegnati", di litigi in famiglie ufficialmente lontane dalla politica, di rotture di fidanzamenti e di interruzioni di antiche amicizie, con l'editoriale del giornalista impegnato sotto il naso.
Una carta che pesò come piombo su un popolo, quello italiano, che per intelligenza, per inventiva e per bontà d'animo meriterebbe di vivere solo decenni felici.