Contrariamente a quanto sostenuto ancora oggi da una parte della storiografia marxista (internazionalista e no), la Rivoluzione Ungherese del 1956 non fu affatto un tentativo messo in atto dalla nomenclatura di Budapest per dare vita ad un sistema "comunista dal volto umano" o per instaurare un regime "deviazionista" (come sostenne Palmiro Togliatti), ma fu il primo grande atto di rivolta di massa antisovietico e anticomunista del secondo dopoguerra, promosso in nome di ideali nazionalisti e socialdemocratici, intrapreso coraggiosamente per conseguire l'autodeterminazione politica dell'Ungheria e il suo distacco dal Patto di Varsavia. Tutto ciò in sintesi, anche se occorre ricordare che la Rivolta Ungherese trasse le sue origini e motivazioni da una lunga e articolata serie di fattori riconducibili, comunque, alla totale inefficienza e alla estrema durezza del regime comunista messo in piedi da Stalin. Già prima della sollevazione, la disastrosa contingenza economica del Paese e i bassi standard di vita
avevano provocato un profondo malessere che il governo, suddito di Mosca, non era stato in grado di curare. Agli inizi degli anni Cinquanta, l'Ungheria - uscita stremata dal Secondo Conflitto Mondiale - era una nazione debole e poverissima, in gran parte agricola, nella quale la miseria e, soprattutto, la mancanza di prospettive la facevano da padrone: una situazione, questa, che vedeva l'ala riformista e quella stalinista azzuffarsi continuamente senza riuscire a venire a capo di nulla: uno stato di cose che precipitò quando Nikita ChruÅ¡cëv demolì il mito staliniano, innescando in Ungheria, e non solo, un acceso dibattito all'interno del Partito Socialista Ungherese. Mentre quest'ultimo era accecato dagli scontri all'interno della leadership, la popolazione entrò in azione. La rivoluzione ebbe inizio il 23 ottobre 1956 da una manifestazione pacifica promossa in sostegno degli studenti della città polacca di Poznan, la cui protesta contro il malgoverno di Varsavia era stata violentemente repressa.
Ben presto, e in maniera del tutto spontanea, la manifestazione magiara si trasformò in una vera e propria rivolta contro il leader stalinista Mátyás Rákosi e contro la presenza di forze armate sovietiche sul suolo ungherese. Nell'arco di nemmeno una settimana, tutta l'Ungheria insorse e i rivoltosi riuscirono a porre sotto controllo quasi tutto il Paese, incarcerando e non di rado eliminando fisicamente burocrati filo-sovietici e membri dell'ÁVH (la spietata polizia politica). Dopo varie vicissitudini, il Partito Socialista Ungherese nominò primo ministro Imre Nagy che concesse gran parte di quanto richiesto dai manifestanti, identificandosi con la rivoluzione in corso e proclamando, il 1° novembre, l'indipendenza della nazione. La resistenza armata degli insorti e l'intervento mediatore del governo Nagy portarono, oltre al collasso del Partito Socialista Ungherese, il 28 ottobre 1956, ad un momentaneo cessate il fuoco tra le truppe sovietiche e gli insorti: armistizio che consentì agli ungheresi di
tentare un accordo con i capi militari russi, per consentire all'Armata Rossa uno sgombero pacifico dell'Ungheria. Tuttavia, durante i colloqui il neo ministro della Difesa, generale Pál Maléter venne proditoriamente arrestato assieme a tutta la delegazione ungherese dagli uomini del KGB al comando di Ivan Serov. Avuta notizia del "tradimento", il 4 novembre, Imre Nagy chiese ed ottenne asilo politico presso l'ambasciata iugoslava per evitare la cattura; ma il 22 novembre, in seguito ad un'intesa segreta tra Tito e ChruÅ¡cëv, egli venne consegnato ai sovietici per poi essere processato e fucilato due anni più tardi (il 16 giugno 1958) assieme ad altri capi rivoltosi. Eliminato il pericolo Nagy, l'Armata Rossa, nonostante la feroce ed eroica resistenza armata del popolo ungherese, occupò Budapest, eliminando fisicamente migliaia di ribelli e cittadini comuni ed instaurando un esecutivo filo-sovietico capeggiato dal leader Kádár che, entro il gennaio 1957, pose fine con la forza al sogno di libertà
del popolo magiaro. E se da un lato tutti i partiti democratici occidentali non ebbero tentennamenti nel condannare "senza se e senza ma" la spaventosa repressione russa, parte dell'"internazionale" comunista non ebbe il coraggio di compiere questo doveroso (sotto il profilo politico e morale) passo. Parlando del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti disse: "È mia opinione che una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli". E a al povero Pietro Ingrao, che lo andò a trovare subito dopo l'invasione per metterlo al corrente del fatto che il suo turbamento gli aveva impedito di prendere sonno, il leader del PCI confidò: "Io invece ho bevuto un buon bicchiere di vino in più". Ma la cosa più divertente è che Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica - che nel 1956 era il responsabile della Commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI, e che nel
settembre scorso si è recato a Budapest per versare lacrime "sui martiri della resistenza antisovietica magiara" - condannò come controrivoluzionari tutti gli insorti ungheresi. Su L'Unità il nostro buon presidente Napolitano arrivò a definire gli operai insorti "teppisti" e "spregevoli provocatori" giustificando totalmente l'intervento delle truppe sovietiche, sostenendo invece che si trattasse di un "elemento di stabilizzazione internazionale" e - udite udite - di uno straordinario "contributo alla pace nel mondo". Anche se, a mezzo secolo da quelle sparate, nella sua autobiografia politica intitolata Dal PCI al socialismo europeo, un ormai avveduto Napolitano si dilunga circa un suo presunto "grave tormento autocritico" riguardo a quella posizione, nata in lui dalla errata concezione del ruolo del Partito Comunista: un partito ritenuto "inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall'URSS". Luigi Longo, forse il meno dotato dei burocrati comunisti dell'epoca in questione, pur di
difendere l'operato sovietico, sostenne con una buona dose di fantasia la famosa "tesi della rivolta fascista": "L'esercito russo - disse e scrisse Longo - è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l'ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori...". Nonostante l'eco di queste intramontabili fesserie riecheggi a tutt'oggi in certi circoli vetero-marxisti, va però detto che nel 1956 la base del Partito Comunista Italiano rimase fortemente scossa, tanto che, nel 1957, la compagine accusò un certo calo degli iscritti e l'uscita o lo spontaneo allontanamento di attivisti o simpatizzanti illustri, come Giolitti, Reale, Crisafulli, Onofri, Sapegno, Purificato, Trombadori, Muscetta, Loris Fortuna, Girelli, Calvino e Silone. E va anche detto, per amor di verità, che anche la CGIL prese posizione a favore degli insorti: "La Segreteria della CGIL esprime il suo profondo cordoglio per i conflitti che hanno insanguinato
l'Ungheria..., ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva dei metodi antidemocratici e di governo e di direzione politica ed economica... deplora che sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria l'intervento di truppe straniere..." (L'Unità del 28 ottobre 1956). Tale presa di posizione fu favorita da Giuseppe Di Vittorio, dalla corrente autonomista del Partito Socialista Italiano e da Pietro Nenni che condannò anch'egli, e senza alcuna riserva, la repressione.