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Twitter batte in testa
di Riccardo Ruggeri

da ITALIA OGGI

Un paio d'anni fa scelsi di entrare nel magico mondo dei social, seguendone però, stante l'età, solo uno, Twitter, quello che ritenevo il meno faticoso, il più adatto a me. Trovai curiosa l'idea di avere a disposizione 140 battute, troppo poche per esprimere un qualsiasi pensiero o avere un dibattito appena decente, troppe per dare un voto secco (si/no, giusto/sbagliato, bello/brutto). Esaminai le diverse opzioni di approccio, scelsi quella più difensiva.

Mi fu subito chiara l'estrema pericolosità del mezzo, ero certo che per me mai sarebbe diventata una droga, però poteva diventare un pericoloso parassita, che poteva insinuarsi negli interstizi del mondo in cui avevo scelto di vivere. Osservando lo scambio frenetico di tweet capii che molti twittatori di professione non avevano alcuna idea di quello che scrivevano. Il mezzo dava loro un falso senso di intimità, riduceva il loro autocontrollo, li faceva agire senza riflettere, conduceva i malcapitati sempre sull'orlo, come minimo, di una gaffe.

Decisi un approccio personale. Non ero interessato a fare promozioni per raccogliere follower, non avendo alcuna capacità a essere qualcosa di diverso dall'essere me stesso (come si dice, non mi so vendere). Avrei usato il lei per rispetto verso gli interlocutori (nella mia famiglia davo del lei a mia suocera, così fanno le mie nuore con me, eppure ci vogliamo molto bene). Avrei sempre immaginato di vedere una persona dietro il suo tweet, mantenendo il senso di empatia che non deve mancare nei rapporti umani. Avrei sempre chiesto scusa per qualsiasi scivolata. Mai sarei diventato follower di grandi personaggi: i tweet di Obama, di Francesco, di Renzi, sono imbarazzanti nella loro ovvietà, leggendoli, mi vergogno per loro.

Scelsi un taglio leggero e ironico per comunicare (lo stesso che uso nello scrivere, il mio), non avrei vissuto, come altri, in termini competitivi il numero dei follower, decisi di avere pochissimi following, una cinquantina, per metà amici cari, per un quarto persone curiose, per un quarto radical chic, dei quali avrei letto con cura tutti i loro tweet, ma mai, e poi mai avrei interagito, peggio polemizzato, con individui di tal fatta. In altre parole, per me Twitter sarebbe stato un succedaneo mentale del crossfit fisico inventato da Greg Glassman. I miei tweet se anziché esercizi mentali (più correttamente sputi intellettuali) fossero esercizi fisici, sarebbero riconducibili ai movimenti funzionali classici del crossfit (air squat, push-up, pull-up, lunge, sit-up, ring dip).

Non ho mai capito perché un prodotto sofisticato come Twitter sia nato e vissuto senza avere alcun manuale di istruzioni. Finalmente, il suo CEO, Dick Costolo, ha fatto una feroce autocritica. L'autocritica ha un taglio alto, centrata com'è su preoccupazioni etico-umanitarie, però, sotto sotto, si colgono preoccupazioni per lui molto più rilevanti, perché legate al business. Dei 500 milioni di iscritti solo la metà sono attivi, per di più in diminuzione, e il povero Dick sa che, se non arresta l'emorragia, Wall Street lo caccerà. Si è inventato allora una teoria eunuca, tipica dei supermanager del tempo d'oggi: «Non si va su Twitter per twittare». Sono curioso di vedere come finirà. In questi giorni ha avuto un colpo di fortuna incredibile, il curioso attacco dell'ISIS a Twitter.

A parte questo, Dick Costolo non dovrebbe preoccuparsi, a differenza dei suoi colleghi supermanager, altrettanto arroganti e inetti, lui un mestiere lo ha avuto, e che mestiere, quindi possiede la skill più alta richiesta nel mondo del business anglosassone d'oggi. Incredibile ma vero, lui è stato un eccellente attore del «teatro d'improvvisazione» americano. Chapeau!
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editore@grantorinolibri.it

articolo pubblicato il: 12/03/2015 ultima modifica: 18/03/2015

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