«E dico a uno: Va, ed egli va; e ad un altro: Vieni, ed egli viene;». (MT, 8, 9)
«Partito di là, Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco della dogana, e gli disse «Seguimi». Ed egli, alzatosi, lo seguì. (MT, 9, 9)
«Costui era davvero il Figlio di Dio!» (MT, 27, 54)
Le brevi riflessioni che seguono non sono davvero indirizzate soltanto ai credenti. Penso perciò che, chiunque non rifiuti a priori le questioni che concernono la sfera del militare nel senso più ampio del termine, possa leggerle senza rischio di fastidio - e spero con un minimo di interesse - poiché è mio intendimento esporre considerazioni puramente teoriche intorno ad alcuni aspetti forse poco trattati o conosciuti del rapporto tra fede ed esercizio delle armi. Quanto mi sforzerò di dimostrare difetta sicuramente di unitarietà d'argomento e d'ispirazione, ma contiene almeno il pregio di essere sincero e, mi auguro, anche chiaro. Che poi sia pure condivisibile o no, è un'altra questione.
In un clima a tutt'oggi ancora molto diffuso di antimilitarismo e pacifismo di principio vi sono certo parecchi cristiani, cattolici e non, che ritengono incompatibile con la professione delle armi il messaggio dei Vangeli e la dottrina della Chiesa in generale. La militia, come direbbero i latini, rappresenta infatti, nel cosiddetto immaginario collettivo di tanti, l'universale simbolo di morte, ferocia e guerra, mentre il verbo di Gesù promette amore, pace e vita.
A prima vista il ragionamento può sembrare corretto, e vi è pertanto chi nel 2000 ha criticato la giornata del Giubileo dedicata da Giovanni Paolo II ai militari di tutto il mondo; ma la rilettura di tre passi di Matteo - e due di essi molto vicini tra loro - mi ha spinto ad alcune meditazioni su quegli elementi che caratterizzano l'atipicità tutta peculiare della vita di chi serve la Patria in uniforme e di chi serve Dio seguendo il Cristo. Il termine atipicità naturalmente qui riveste il significato di differenza specifica tra uno stile esistenziale posto al servizio di un dovere o di un valore e quello che invece oggi si definirebbe laico, ovvero il più diffuso nella società contemporanea, alieno dal trascendente e dominato semmai dall'egoismo individualistico e, perché no, edonistico.
Quel che balza immediatamente agli occhi nei primi due passi sopra riportati non è tanto la straordinaria sintesi dell'essenza stessa della vita militare posta in bocca al centurione di Cafarnao - essenza che si concentra pur sempre nell'obbedire, anche se oggi si tende a mitigare questo aspetto ritenendolo troppo prussiano - quanto l'affinità di questa con la vocazione di San Matteo, che si risolve in un esplicito, quasi militaresco comando del Cristo senza alcuna motivazione e privo di qualsiasi promessa; diverso cioè dalla chiamata dei primi due discepoli Simone e Andrea, ai quali Gesù disse «Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini» (MT, 4, 18).
Esercizio della fede ed esercizio delle armi, ci si può allora chiedere, sono dunque così estranei (ma non parla forse la dottrina cattolica di Chiesa Militante), oppure sono caratterizzati entrambi da alcune scelte personali che impegnano per la vita (in quanto consacrato da un sacramento il primo e da un giuramento il secondo), e che prendono il nome di disciplina, obbedienza (fra l'altro uno dei tre voti di qualsiasi regola monastica), servizio e sacrificio?
L'obiezione più ovvia al mio discorso potrebbe essere quella che il cristiano fa una scelta di carità, cioè di donazione agli altri fratelli, e rifiuta a priori la violenza, come ben sintetizzano Luca 22, 38: "Ed essi dissero «Signore, ecco qui due spade!» Ma egli disse loro: «Basta!»", e Matteo nel discorso delle beatitudini: «Beati gli operatori di pace» (MT 5, 9); il militare al contrario è colui che implicitamente, indossando un'uniforme che proprio per questo lo distingue dal cittadino comune, si dichiara disposto ad uccidere. Ciò è vero, e le critiche degli antimilitaristi, laici o credenti che si dichiarino, sarebbero allora veramente inoppugnabili.
Gli antimilitaristi tuttavia, di solito, dimenticano un secondo ma niente affatto secondario aspetto qualificante della vita di un soldato: che esso è anche pronto, in qualsiasi momento, a farsi uccidere per non venire meno ad un giuramento pronunciato. E questa disponibilità - la quale richiede invero un senso dell'onore che non è contemplato tra le doti necessarie al cristiano, ma è sostituito dalla carità - che non viene pretesa da nessun altro cittadino dello Stato, è la testimonianza di fedeltà assoluta al proprio giuramento. Testimonianza che per altro nella terminologia della Chiesa, con un sostantivo derivato dal greco, viene detta Martirio, cioè "Testimonianza" e venerata come virtù eroica di numerosi santi. Proprio a questo punto del ragionamento mi sembra che sorga spontaneo il seguente pensiero: la vita in armi, chiusa da un lato fra l'alternativa di dare o ricevere un giorno la morte, e votata ad un duro e misconosciuto servizio dall'altro, senza la fede e la speranza in un Dio superiore e misericordioso, si ridurrebbe a disperazione e violenza. Da qui, sostengo, deriva in linea di massima l'affinità, che è l'esatto contrario dell'incompatibilità, tra fede e milizia. Vicinanza che d'altra parte è una caratteristica evidente in qualunque periodo della storia, dal momento che tutti quelli che una volta erano i guerrieri, e divennero poi dei soldati, hanno sempre invocato l'aiuto del divino, comunque essi lo concepissero.
I laici, sociologi o psicologi emunctae naris sosterranno che tale fenomeno è dovuto al semplice terrore di perdere la propria vita, ovvero a quell'istinto di conservazione che conduce ad aggrapparsi persino ad un aiuto occulto e trascendente. Il Vangelo di Matteo invece sembra suggerirci una diversa interpretazione. Invito innanzitutto il lettore a consultare l'intero passo di Matteo da 8, 5 a 8, 13. Gesù, a differenza di tanti savant contemporanei, non mostra alcuna prevenzione morale nei riguardi del centurione e della sua professione delle armi. Potrà dunque condannare la guerra nelle profezie apocalittiche degli ultimi tempi, quando i regni si solleveranno contro i regni, ma non ha certo condannato i soldati che le combatteranno. Al tempo stesso il centurione di Cafarnao - sicuramente un romano od un italico, e quindi pagano e superstizioso, o almeno indifferente, se dotato di una certa cultura - non soltanto intuisce per una speciale grazia la divinità del Cristo, ma dimostra anche nei suoi confronti un rispetto ed un'umiltà straordinari, che in nulla rispecchiano l'atteggiamento altezzoso e superbo che ci si aspetterebbe da un militare che si rivolge ad un provinciale appartenente ad un popolo sottomesso . La fede di questo soldato è d'altra parte così forte, e la sua richiesta così umana (la guarigione del proprio servo al quale sembra legato da un amore più che fraterno), che il medesimo Salvatore è colto da ammirazione ed apostrofa i presenti dicendo: «In verità vi assicuro: presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande.» (MT, 8, 10).
Com'è possibile ciò, e come è possibile che la rivelazione tocchi il cuore dei duri militari prima che quelli dei miti civili giudei? Certo, il Cristo gettava scandalo proprio perché non allontanava da sé i peccatori come le prostitute ed i pubblicani, e forse anche i soldati e gli stranieri rientravano in questa categoria che era così bisognosa della sua parola ed era tanto disprezzata dalla morale degli israeliti. È però vero, qualcuno potrebbe giustamente osservare, che furono i legionari della coorte di stanza a Gerusalemme a schernirlo, fustigarlo e crocifiggerlo. Ma è anche vero che furono un centurione (il celebre Longino delle leggende del graal) ed i soldati di guardia al corpo ormai esanime di Gesù - forse i medesimi che lo avevano dileggiato ed avevano tratto a sorte le sue vesti - ad esclamare «Veramente costui era Figlio di Dio!». Si badi bene, «Figlio di Dio» e non un profeta risorto od un santo, come gli israeliti al di là dei discepoli ritenevano il Cristo, e furono gli unici spettatori di quell'evento a ricevere il privilegio di una tale rivelazione che non fu concessa né agli ebrei né alle guardie del Tempio, i quali pure assistettero ai prodigi che seguirono alla sua morte in croce.
La conclusione che mi viene spontanea è ancora la medesima: mentre la religione cattolica condanna la guerra - ma non tutte e non in assoluto - instaura invece con chi la combatte, la vive e la soffre in prima persona, un rapporto particolare di amorevole sollecitudine, di conciliazione e di conforto, dimostrando così una sapienza assai superiore ai superficiali e drastici giudizi dei cosiddetti uomini di cultura. E la condotta della Chiesa, oggi come ieri, non deriva soltanto da ragioni di opportunità pastorale (fare proseliti fra i giovani di solito così lontani dal trascendente), ma da un esplicito messaggio del Cristo e dei Vangeli, come mi sono sforzato di dimostrare esaminando soltanto quello di Matteo.
Inoltre mi sembra di poter ribadire che esiste veramente una sostanziale somiglianza tra la vita del fedele e quella del militare, purché si rifletta un istante sulla vera natura del Cristianesimo. Questa religione infatti presenta degli aspetti, oggi invero sottaciuti nel nome di una laicheggiante interpretazione tanto libertaria quanto arbitraria, che non si riducono al solo amore e volontariato. Il vero credente s'impegna in una morale di straordinario rigore imponendo a se stesso il sacrificio dei piaceri e delle voluttà offerti a piene mani dalla vita contemporanea; riconosce l'obbedienza interiore ai precetti e quella formale ad una gerarchia che ha al suo vertice il Romano Pontefice; partecipa ai riti ed ai culti della Chiesa e mostra infine il coraggio di militare in un mondo che sempre meno lo comprende e l'apprezza. In maniera non difforme, colui che veste un'uniforme è soggetto ad un'etica che comporta il sacrificio di sé per la salvaguardia della nazione e delle istituzioni civili; deve tanto un'obbedienza esterna ad una scala gerarchica di superiori quanto una interna a dei valori spirituali che si possono condensare nel binomio Patria ed Onore; è destinato
infine a vivere in un mondo che lo ignora, o comunque non lo apprezza, o addirittura lo detesta.
Non è perciò da tutti essere buoni cristiani, esattamente come non è da tutti essere buoni soldati, poiché è necessaria per entrambe le scelte di vita quella che potremmo definire una vocazione che, come tutte le vocazioni, ad esempio quella di un Matteo o di un Paolo, ma anche di un Eugenio di Savoia o di un Alessandro Farnese, avviene spesso nelle forme più varie e persino improbabili.
Questa affinità esistenziale tra chi milita al servizio della fede e chi milita al servizio di un ideale spirituale che chiamiamo Patria conduce perciò spesso nella storia ad una necessaria osmosi che è avvalorata dalla quantità incredibile di soldati che sono divenuti santi, o martiri o combattenti per il Cristo: da Paolo di Tarso ad Ignazio di Loyola ai fratelli-guerrieri degli ordini monastico militari, i quali coniugavano l'uso della spada con l'adorazione della Croce, la morte gloriosa in battaglia con il martirio per la fede, l'etica cavalleresca con il l'ardente misticismo cristiano.
Ma è avvalorato così anche il fenomeno dalle tante, tantissime preghiere militari delle Armi e dei Corpi dell'Esercito italiano e di quelli delle nazioni cristiane in generale. Preghiere che, chiunque le legga potrà osservare, si rivolgono di preferenza alla Vergine, al Cristo ed a Dio Onnipotente, piuttosto che, in forma più superstiziosa, ai singoli santi protettori dei vari Corpi militari o delle diverse Forze Armate.
Perché la misericordia divina sia così sollecita nel rivolgersi in maniera tutta speciale a chi porta quelle armi che, alla logica umana, ne costituiscono la palese negazione, può rimanere per i fedeli un mistero, e per i laici una questione del tutto astratta ed inconcludente. Inconcludente come può forse essere considerato il mio discorso dall'inizio alla fine. In ogni caso, anche coloro che non credono devono almeno registrare questa singolarissima simbiosi tra due stili di vita apparentemente antitetici.
L'umiltà del centurione di Cafarnao è ulteriormente esaltata da Luca, 7, 1-10.
« Ed essi dissero: Signore, ecco qui due spade» (Luca - 22, 38)
38 Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade!» Ma egli disse loro: «Basta!»
Giovanni (Gv. 18,13), sfodera la spada e taglia un orecchio ad un servo del sommo sacerdote. Da questo episodio viene la richiesta di Gesù di riporre la spada dicendo che Qui gladio ferit gladio perit.
articolo pubblicato il: 18/02/2015 ultima modifica: 04/03/2015