L'articolo 11 della Costituzione afferma che l'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, pur con qualche distinguo che permette di operare per la pace e la giustizia.
Ogni volta che i nostri soldati sono andati all'estero, a partire da Beirut nei lontani anni Ottanta, i governanti hanno sempre tenuto a sottolineare che si andava per portare la pace. Talvolta si sono mantenuti strettamente al mandato ONU. A Mogadiscio, i carri non poterono appoggiare i parà sotto tiro perché nelle regole d'ingaggio era previsto solo l'uso di armamenti individuali. D'Alema in Kossovo, invece, mandò sul posto i bombardieri. Dapprima tentò di minimizzare, parlando solo di appoggio logistico, come dire che il palo è meno colpevole del borseggiatore, ma la verità dei raid tricolori venne tranquillamente a galla.
Ai tempi delle "primavere" arabe milioni di italiani di qualsiasi fede politica non riuscivano a capacitarsi del perché Berlusconi, che aveva firmato un trattato di amicizia e cooperazione con la Libia, suggellato da un plateale baciamano a Gheddafi, avesse cambiato repentinamente posizione dopo aver addirittura telefonato al Rais alle prese con le bombe francesi. Ignazio La Russa, Ministro della Difesa dell'epoca, disse che dovevamo soltanto dare le basi d'appoggio, ma in seguito ci fu una vera e propria guerra aerea. Tanti italiani pensarono che esistessero clausole segrete nei trattati per le quali non possiamo rifiutarci di mettere a disposizione le basi, anche se contro i nostri interessi politici ed economici.
Berlusconi ha recentemente detto coram populo che fu Napolitano a volere la guerra, mentre lui era contrario, come anche Vittorio Feltri ha ricordato sul "Giornale". Bruno Vespa ha raccontato a "Porta a Porta" che, nell'intervallo tra un atto e l'altro di una rappresentazione al Teatro dell'Opera di Roma, fu tenuta una riunione drammatica al termine della quale Berlusconi dovette obbedire. Vespa non ha specificato chi fosse presente in quel locale riservato del teatro, ma è facilmente intuibile che solo Napolitano potesse essere l'interlocutore.
Nel rispetto delle norme costituzionali, il Presidente della Repubblica non ha il potere di imporre alcunché al Governo. Il premier, se è autorevole, rimarca tranquillamente le proprie prerogative, ricordando che certe decisioni non spettano certo a colui che dovrebbe essere, come lo furono i primi Presidenti, solo il "notaio" della Repubblica.
Le rivelazioni di questi giorni fanno il paio con quanto disse la Santanché in alcuni talk show, ossia che Berlusconi si era dovuto dimettere da premier perché era stato vittima di un ricatto. A parte il fatto che può essere ricattato solo chi è tecnicamente ricattabile, la realtà è che in quell'autunno del 2011 la maggioranza perdeva pezzi e l'Italia intera credibilità, per cui se si fosse andati alle elezioni, come avvenne in altri Paesi, il centrodestra sarebbe stato "asfaltato", per usare una locuzione giovanilistica.
Dal 25 aprile del 1945 l'Italia è ufficialmente in pace, ma più o meno da trent'anni i soldati italiani vanno in giro per il mondo, a volte lasciandoci la vita o anche, come i due fucilieri, la libertà. Sarebbe più decoroso se si abolisse l'articolo 11 della Costituzione e non parlare di pace quando si fa la guerra. Il modo di operare dei governanti italiani, di destra, di centro e di sinistra, ricorda la battuta di Enzo Biagi: "La ragazza è incinta, ma appena appena".
Quanto a Berlusconi, dire che è l'ombra del vincitore del '94 sarebbe forse addirittura esagerato; la situazione del Paese esige invece che a contrapporsi ad un leader giovane e deciso come Renzi ci sia un capo dell'opposizione che non si faccia condizionare e che abbia in testa un progetto chiaro e condiviso da proporre agli elettori.
articolo pubblicato il: 17/02/2015 ultima modifica: 01/03/2015