Dalle primissime pagine di questo ultimo libro di Giuseppe Moscati (In bocca al gufo, Mimesis, 2022), anzi fin dai teneri disegnini dei suoi “bàmboli” (come li chiamerebbero i librettisti di Rossini e Donizetti) che compaiono nella prima e quarta di copertina e a pagina 25, si è proiettati subito in un mondo fiabesco popolato da animali narranti (o “parlanti”, per ricordare il titolo del celebre libro di Giambattista Casti). Anzi, si rimane subito sorpresi dal fatto che a raccontare la propria storia sono per lo più quegli animaletti che, salvo da parte degli entomologi, non godono in genere di eccessiva simpatia (pulci, ratti, polipi, bisce, piccoli granchi, formiche, rospi boreali, gufi che si incantano davanti agli scaffali di antiche biblioteche e si meravigliano – umanamente – della nomea che hanno di iettatori, topolini che amano la lettura), oppure che negli stessi racconti vi compaiano come elementi ispirativi oggetti non particolarmente significanti, come – per esempio - un tubo di gomma, un nastro magnetico di un’audiocassetta, un giravite, un pallone …
Si tratta di ministorie, raccontate con levità, ironia, tono colloquiale e linguaggio semplice (che privilegia sempre, come nelle favole, l’ascolto dei più piccoli), ma sempre raffinato e colto, nel solco e di un genere classico della letteratura che ha attraversato secoli e secoli di storia, tanto per dire, da Esopo a Walt Disney, e oltre, passando, e andando per sommi capi, da Fedro a La Fontaine e Trilussa, dove i personaggi sono animali che si esprimono con il linguaggio, i comportamenti e i difetti degli uomini (con gli stessi sentimenti degli uomini, come diceva Voltaire). Senza dimenticare la grande tradizione favolistica di culture più lontane, come quella indiana e buddista e quella egiziana.
E viene da chiedersi, come mai, gli autori di favole abbiano pensato di trasferire sugli animali i propri sentimenti, la propria filosofia, la propria esperienza di vita, la loro fantasia, anche al fine poi di giungere ad una “morale”, ossia ad un insegnamento relativo a un principio etico o ad un comportamento, che spesso è formulato esplicitamente alla fine della narrazione, anche se in genere è sottintesa e non centrale ai fini della narrazione. La risposta tanto semplice, quanto assolutamente non esaustiva, è che gli animali nella fabula servono come allegorie per veicolare un concetto, e sono diventati per questo motivo uno stereotipo fisso del luogo comune. Per quanto poi riguarda gli oggetti, la risposta ce la dà Gianni Rodari, quando in quattro versi della sua poesia “Il posto delle favole” ci dice: “Le favole dove stanno? / Ce n’è una in ogni cosa: / nel legno del tavolino, / nel bicchiere, nella rosa.” Basta saperla trovare, aggiungiamo noi.
Ma cosa c’è in questi “raccontini” di Moscati? C’è, semplicemente, “tutto lui”: ci ritrovi la sua cultura, le sue letture, frammenti di autobiografia, la ricerca filosofica su tanti perché, dubbi e provocazioni (prima di tutto indirizzate se stesso), la sfida contro tanti luoghi comuni, una forte sensibilità empatica nei confronti degli “ultimi” e dei diseredati, a cominciare dai sifanatteri e dagli imenotteri (chi sono, direte voi? Con lo smartophone lo si può sapere in venti secondi), un sogno cosmico in cui nulla si perde o si disperde, né il frinire di una cicala né il buco di un tarlo, né un sorriso o uno sguardo, né l’attesa di un treno alla stazione, “il profumo del risotto che ondeggia intorno alla finestra della cucina”, né gli “occhi di bimba / posati su un fiore / (che) cambiano colore” , né “la nostra canzoncina “ che “si sente da lontano / con nostalgia”, né “l’odore della cassettiera nuova di legno”; ma tutto (si perdonerà l’autocitazione da una mia poesia come testimonianza di un perfetto “unisono” con l’autore del libro), “in eterno rimane / nel grembo materno dell’universo”. In queste pagine, inoltre, c’è una sfrenata fantasia, tanto anelito verso la poesia (benché scritta in righi lunghi, fatta eccezione per gli “esperimenti di haiku” che chiudono il libro).
E poi c’è il suo forte impegno civile, il suo “credo” pacifista (capitiniano). Nel racconto/apologo, bellissimo e profondamente sentito, intitolato “Rotatoria”, c’è, per bocca di una imprudente cagnolina, una forte condanna della guerra, lo stupore e lo sgomento di come sia per l’uomo cercare soluzioni nella guerra (il racconto, si badi bene, è stato scritto ben prima di quella che stiamo vivendo e soffrendo): “E pure basterebbe ben poco per non farla, per non scatenarla e persino per non inventarsela … una volta ho sentito – è sempre a palare, con il suo abbaiare per noi (quasi) tutti incomprensibile – che qualcuno la guerra la chiama anche in un modo originale, quasi buffo direi se non fosse che la questione è tragica, cioè scontro di civiltà. Ma insomma spiegatemi voi questo strano, stranissimo fatto: com’è possibile che una civiltà faccia la guerra e la faccia a un’altra civiltà, che a sua volta pure essa fa la guerra? Civile significa tutt’altra cosa, io credo. Civiltà della guerra? Mi pare che questo si chiami ‘paradosso’ bell’e buono, nevvero?”.
articolo pubblicato il: 25/05/2022